venerdì 26 aprile 2024
Racconti d'Orrore

L'IMBUTO DI CUOIO

Il mio amico, Lionel Dacre, abitava nell'Avenue de Wagram, a Parigi. La sua casa era quella piccola, con la cancellata di ferro e il giardinetto davanti, che s'incontra sulla sinistra, venendo dall'Arco di Trionfo. Immagino che essa esistesse già molto tempo prima che il viale venisse costruito, poiché i tegoli erano cosparsi di licheni, e i muri erano ammuffiti e scoloriti dagli anni. Sembrava piccola vista dalla strada, cinque finestre sulla facciata, se ben ricordo, ma sul retro si estendeva in un'unica, lunga sala. Era qui che Dacre teneva quella singolare biblioteca di letteratura occulta, e quei bizzarri oggetti che costituivano il suo hobby e il divertimento dei suoi amici. Uomo ricco, dai gusti eccentrici e raffinati, aveva speso la miglior parte della sua vita e della sua fortuna mettendo insieme una raccolta privata, che si diceva unica nel suo genere, di opere talmudiche, cabalistiche e di magia, molte delle quali assai rare e di grande valore. I suoi gusti tendevano al soprannaturale e all'orrido, e ho sentito dire che i suoi esperimenti nel campo dell'ignoto hanno passato ogni limite di civiltà e di decoro. Con i suoi amici inglesi egli non parlava mai di queste cose, anzi si atteggiava a studioso e a grande esperto; ma un francese, i cui gusti erano analoghi ai suoi, mi ha assicurato che le più macabre delle messe nere si sono svolte in quella vasta sala, le cui pareti sono tappezzate da libri e da bacheche che la rendono simile a un museo.

L'aspetto di Dacre era sufficiente a dimostrare che il suo profondo interesse in queste faccende psichiche era intellettuale piuttosto che spirituale. Il volto massiccio non recava alcuna traccia di ascetismo, ma l'enorme cranio a cupola che spuntava al di sopra dei capelli ormai radi, simile a una vetta innevata circondata da una frangia di abeti, rivelava una grande forza mentale. La sua sapienza superava la sua saggezza, e la volontà era di gran lunga superiore al carattere. Gli occhi piccoli e vivaci, profondamente infossati nel volto carnoso, brillavano di intelligenza e di un'insaziabile curiosità della vita, ma erano gli occhi di un sensuale e di un egoista. Ma basta col parlare di lui, poiché adesso egli è morto, povero diavolo, morto proprio quando era sicuro di avere finalmente scoperto l'elisir di lunga vita. Non è del suo complesso carattere che io voglio parlare, ma della strana e inspiegabile vicenda che avvenne durante la visita che gli feci nella primavera dell"82.

Avevo conosciuto Dacre in Inghilterra, poiché le mie ricerche nella Sala Assira del British Museum si erano svolte nel medesimo tempo in cui egli stava tentando di attribuire un significato mistico ed esoterico alle tavole babilonesi, e questi comuni interessi ci avevano avvicinati. I primi casuali commenti si erano approfonditi in conversazioni quotidiane, e queste, a loro volta, si erano trasformate in qualcosa di simile all'amicizia. Avevo promesso di fargli visita, la prima volta che mi fossi recato a Parigi. All'epoca in cui potei adempiere alla mia promessa, abitavo in una villetta a fontainebleau, e poiché i treni della sera erano scomodi, egli mi chiese di trascorrere la notte in casa sua.

"Non ho che quel letto da metterle a disposizione" mi disse, indicando un ampio divano nel suo grande salone. "Spero che potrà starci comodo." Era una singolare stanza da letto, quella, con le sue alte pareti tappezzate di volumi, ma non potevano esistere mobili più gradevoli per un amante di libri quale io ero, né vi è alcun profumo così attraente alle mie nari quanto quel tenue, leggero tanfo che emana da un libro antico. Lo assicurai che non avrei potuto desiderare una camera più piacevole, né un arredamento più congeniale.

"Se l'arredamento non è né comodo né convenzionale, è perlomeno costoso" commentò Dacre guardandosi attorno. "Questi oggetti che la circondano mi sono costati quasi un quarto di milione. Libri, armi, gemme, intarsi, arazzi, quadri... non esiste un solo oggetto che non abbia la sua storia, e una storia che generalmente vale la pena raccontare." Mentre parlava, egli era seduto da un lato del caminetto aperto, e io dall'altro. Alla sua destra si trovava lo scrittoio, sul cui piano una lampada proiettava un vivido cerchio di luce dorata. In mezzo al tavolo c'era un palinsesto semi-arrotolato, e attorno una collezione di strani oggetti. Fra questi, notai un grande imbuto, di quelli che si adoperano per riempire i barili di vino. Pareva fatto di legno nero, e aveva il bordo di ottone scolorito.

"Quello è un oggetto curioso" commentai. "Qual è la sua storia?"

"Ah" replicò "anch'io mi sono posto questa stessa domanda. Darei non so che cosa per conoscerla. Lo prenda in mano e lo esamini bene." Lo presi, e scoprii che ciò che io avevo creduto fosse legno era in realtà cuoio, benché prosciugato e indurito dagli anni. Era piuttosto grande come imbuto, e giudicai che potesse contenere all'incirca un litro. Un bordo di ottone ne circondava il capo più largo, ma anche quello stretto era rifinito in metallo.

"Cosa gliene pare?" mi chiese Dacre.

"Penso che sia appartenuto a un vinaio o a un birraio del Medioevo" risposi. "Ho visto dei fiaschetti di cuoio inglesi del diciassettesimo secolo, che erano dello stesso colore e della stessa consistenza di questo imbuto."

"Suppongo che la data sia suppergiù la medesima" confermò Dacre "e indubbiamente serviva per riempire un recipiente di un qualche liquido. Però se i miei sospetti sono fondati, era uno strano vinaio colui che se ne serviva, e un insolito barile che veniva riempito. Non notate qualcosa di strano sul beccuccio dell'imbuto?" Tenendolo alla luce, osservai che in un punto a una diecina di centimetri circa dal puntale di ottone, lo stretto collo dell'imbuto era tutto segnato e tagliuzzato, come se qualcuno avesse tentato di inciderlo con un coltello poco tagliente.

Soltanto in quel punto l'opaca superficie nera era irruvidita.

"Qualcuno ha tentato di tagliarne via il collo."

"Lo chiamereste un taglio?"

"E' strappato e lacerato. Ci deve essere voluta una certa forza per lasciare dei segni simili su un materiale così duro, qualsiasi fosse stato lo strumento. Ma lei cosa ne pensa? E' chiaro che ne sa più di quanto non abbia detto." Dacre sorrise, e i suoi occhietti brillarono divertiti.

"Ha incluso la psicologia dei sogni fra i suoi dotti studi?" mi chiese.

"Non sapevo neppure che esistesse una simile psicologia."

"Mio caro signore, quello scaffale sopra alla bacheca di gemme è pieno di volumi, da Albertus Magnus in avanti, che trattano unicamente quel soggetto. E' una scienza in se stessa."

"Una scienza di ciarlatani."

"Il ciarlatano è sempre il pioniere. Dall'astrologo è nato l'astronomo, dall'alchimista il chimico, dal mesmerista lo psicologo sperimentale. Il ciarlatano di ieri è il professore di domani. Anche delle cose così lievi e inconsistenti come i sogni, saranno col tempo ordinate e classificate. Quando quel tempo verrà, le ricerche dei nostri amici sullo scaffale laggiù non saranno più il passatempo del mistico, ma le fondamenta di una scienza."

"Anche supponendo che sia così, qual è il rapporto fra la scienza dei sogni e un grande imbuto nero bordato di ottone?"

"Glielo dirò. Lei sa che io ho un agente che è costantemente alla ricerca di oggetti rari e curiosi per la mia collezione. Qualche giorno fa, egli ha sentito parlare di un mercante lungo uno dei "quais", il quale aveva acquistato delle vecchie cianfrusaglie trovate in un armadio in un'antica casa dietro a rue Mathurin, nel Quartiere Latino. La sala da pranzo di questa vecchia casa è decorata con uno stemma, strisce rosse in campo argenteo, che si è dimostrato, dopo un'indagine, essere il blasone di Nicholas de la Reyne, un alto ufficiale di re Luigi XIV. Non vi è alcun dubbio che anche gli altri oggetti in quell'armadio rimontano ai lontani giorni di quel re. Se ne deduce, pertanto, che erano tutti proprietà di questo Nicholas de la Reyne, il quale era, a quanto mi risulta, il gentiluomo incaricato di far osservare ed eseguire le draconiche leggi di quell'epoca."

"E con ciò?"

"Ora le chiederò di prendere nuovamente in mano l'imbuto e di osservarne il cerchio di ottone sull'imboccatura. Riesce a distinguervi delle lettere?" Vi erano certamente degli sgraffi, quasi cancellati dal tempo.

L'effetto che essi davano era di una serie di lettere, l'ultima delle quali somigliava vagamente a una B.

"Non le sembra una B?"

"Sì."

"Anche a me. Anzi, non dubito minimamente che non si tratti di una B."

"Ma il nobiluomo di cui avete parlato avrebbe avuto una R per iniziale."

"Esattamente, è proprio questo il bello. Egli possedeva questo curioso oggetto, eppure esso recava le iniziali di un altro.

Perché fece questo?"

"Non riesco a immaginarlo; e lei?"

"Be', potrei forse tirar a indovinare. Ha notato qualcosa disegnato un po' più avanti sul bordo?"

"Direi che si tratta di una corona."

"E' indubbiamente una corona; ma se lei la esamina in piena luce, si convincerà che non è una normale corona. E' una corona araldica, un emblema nobiliare, e consiste in quattro perle e foglie di fragola alternate, e cioè l'emblema di marchese. Ne possiamo dedurre, perciò, che la persona il cui nome cominciava per B aveva il diritto di fregiarsi di quella corona.

"Allora questo comune imbuto di cuoio apparteneva a un marchese?" Dacre mi rivolse uno strano sorriso.

"O a un membro della famiglia di un marchese" disse "Tutto ciò lo possiamo dedurre da questo bordo inciso."

"Ma che cosa c'entra tutto questo con i sogni?" Non so se dipendesse dall'espressione sul volto di Dacre, o da un'impercettibile suggestione nel suo atteggiamento, ma un senso di repulsione, di inspiegabile orrore, mi assalì mentre guardavo quel vecchio pezzo di cuoio contorto.

"Più di una volta ho ricevuto importanti informazioni attraverso i miei sogni" disse il mio compagno, col tono didattico che egli amava assumere. "Ne ho fatto una regola, adesso. Ogni qualvolta sono in dubbio riguardo a un dato materiale qualsiasi, mentre dormo metto l'oggetto in questione accanto a me. Spero così di venire in qualche modo illuminato. A me il procedimento non appare affatto oscuro, benché non abbia ancora ricevuto il riconoscimento della scienza ortodossa. Stando alla mia teoria, qualsiasi oggetto che sia stato intimamente legato a qualsiasi supremo parossismo di emozione umana, sia essa gioia o dolore, rimarrà impregnato di una certa atmosfera o associazione che esso è in grado di comunicare a una mente sensibile. Quando dico mente sensibile, non intendo dire anormale, ma una mente istruita e colta come la possediamo lei o io."

"Vuol dire, per esempio, che se io dormissi accanto a quella vecchia spada sulla parete, potrei sognare qualche sanguinosa impresa alla quale partecipò proprio quella spada?"

"Un ottimo esempio, perché, a dire la verità, ho usato appunto quella spada, e ho visto nel sonno la morte del suo proprietario, il quale perì in uno scontro armato, che non sono stato in grado di identificare ma che ebbe luogo all'epoca delle guerre dei Frondisti. Se ci pensa bene, alcune delle nostre usanze popolari dimostrano che il fatto era già conosciuto dai nostri antenati, benché noi, nella nostra saggezza, lo abbiamo classificato fra le superstizioni."

"Per esempio?"

"Be', l'usanza di mettere il dolce della sposa sotto al cuscino per assicurare al dormiente dei sogni piacevoli. Questo è uno dei tanti esempi che lei troverà elencati in una piccola "brochure" che sto scrivendo sull'argomento. Ma per tornare al punto, ho dormito una notte con questo imbuto accanto a me, ed ebbi un sogno che certamente getta una curiosa luce sul suo uso e la sua origine."

"Che cos'ha sognato?"

"Ho sognato..." Si interruppe, e un'espressione di grande interesse si dipinse sul suo volto massiccio. "Per Giove, questa sì che è una buona idea" disse. "Sarà un esperimento del massimo interesse. Lei stesso è un soggetto psichico, con i nervi che reagiscono prontamente a qualsiasi impressione."

"Non mi sono mai sottoposto a una prova di questo genere."

"E allora la sottoporremo stasera. Posso chiederle come grande favore, quando lei occuperà questo divano stanotte, di dormire con questo vecchio imbuto appoggiato accanto al cuscino?" La richiesta mi parve grottesca; ma anch'io ho, nella mia complessa natura, una autentica fame per tutto ciò che è bizzarro e fantastico. Non avevo la minima fiducia nella teoria di Dacre, né alcuna speranza che un simile esperimento desse dei frutti; ciononostante mi divertiva che l'esperimento venisse fatto. Dacre, con grande solennità, avvicinò un tavolinetto a un capo del divano, e vi appoggiò l'imbuto. Poi, dopo una breve conversazione, mi augurò la buona notte e mi lasciò.

Rimasi per un po' seduto accanto al fuoco morente, fumando e riflettendo sulla curiosa conversazione che si era svolta, e sulla strana esperienza che forse mi attendeva. Per scettico che fossi, vi era un che di impressionante nella sicurezza dell'atteggiamento di Dacre, e lo straordinario ambiente che mi circondava, l'enorme sala piena di strani e spesso sinistri oggetti, finì coll'incutermi un senso di solennità. Infine mi svestii e, spento il lume, mi sdraiai. Dopo essermi a lungo rigirato, mi addormentai. Lasciate che tenti di descrivere, con la maggior precisione possibile, la scena che si presentò nei miei sogni.

Spicca ancora oggi nella mia memoria, più vivida di qualsiasi cosa che io abbia visto con i miei occhi.

Vi era una stanza che dava l'impressione di essere un sotterraneo.

Dai quattro angoli si alzavano volte a crociera. L'architettura era rozza, ma molto robusta. La stanza faceva chiaramente parte di una grande costruzione.

Tre uomini vestiti di nero, con bizzarri, enormi copricapo di velluto nero, erano seduti in fila su una pedana tappezzata di rosso. I loro volti erano molto solenni e tristi. Alla loro sinistra, si trovavano due uomini vestiti di una lunga toga; avevano delle borse in mano, che parevano piene di carte. A destra, rivolta verso di me, era una piccola donna con i capelli biondi e singolari occhi di un azzurro chiarissimo: gli occhi di una bambina. Aveva passato la prima giovinezza, eppure non si poteva ancora definirla di mezza età. La sua figura era alquanto robusta, e il suo portamento fiducioso e arrogante. Il suo volto era pallido, ma sereno. Era uno strano volto, attraente eppure felino, con appena un accenno di crudeltà nella piccola bocca forte e diritta e nel mento grassoccio. Era avvolta in una specie di tunica, bianca e morbida. Un prete magro e ansioso le stava accanto, bisbigliandole nell'orecchio e sollevando continuamente un crocifisso davanti ai suoi occhi. La donna voltava la testa e guardava fissamente oltre il crocifisso verso i tre uomini in nero, i quali erano, ne ero certo, i suoi giudici.

Mentre guardavo, i tre uomini si alzarono e dissero qualcosa, ma non potei udire una sola parola, benché fossi consapevole che era quello in mezzo a parlare. Poi essi uscirono dalla stanza, seguiti dai due uomini con le carte. Nello stesso istante, numerosi uomini dall'aspetto rozzo e vestiti di pesanti giubbotti entrarono e si misero a togliere prima il tappeto rosso, e poi le assi che formavano la pedana, in modo da sgombrare completamente la stanza.

Quando questo impedimento fu tolto, potei vedere in fondo alla stanza degli strani pezzi di mobilia. Uno di questi pareva un letto, con dei rulli di legno alle due estremità, e una manovella per regolarne la lunghezza. Un altro era una cavalletta di legno.

Vi erano altri curiosi oggetti, fra cui un certo numero di corde pendenti dal soffitto, assicurate a pulegge. Il tutto somigliava vagamente a una palestra dei nostri tempi.

Quando la stanza fu sgombrata, un nuovo personaggio apparve sulla scena. Si trattava di un uomo alto e magro, vestito di nero, dal volto austero e macilento. Il suo aspetto mi fece rabbrividire.

Aveva gli abiti lucidi di unto e cosparsi di macchie. Si muoveva con una lenta e terribile dignità, come se avesse preso comando della situazione dall'istante in cui era entrato. Nonostante il suo aspetto rozzo e il suo abito lurido, adesso era lui a comandare: la stanza era sua. Sul braccio sinistro portava un rotolo di corda leggera. La donna lo scrutò dalla testa ai piedi, ma la sua espressione rimase immutata. Era un'espressione di sicurezza, perfino di sfida. Ma non così il prete. Il suo volto si fece di un mortale pallore, e vidi il sudore luccicare e scendere lungo la sua fronte alta e inclinata. Sollevò le mani in gesto di preghiera e si chinò a borbottare frenetiche parole all'orecchio della donna.

Ora l'uomo in nero avanzava, e prendendo una delle corde dal braccio sinistro, legò le mani della donna, la quale gliele porse docilmente. Poi l'uomo le afferrò un braccio ruvidamente e la condusse verso la cavalletta di legno, che era un po' più alta della vita di lei. Su questa ella fu alzata e deposta supina, con il viso rivolto al soffitto, mentre il prete, sopraffatto dall'orrore, fuggiva in fretta dalla stanza. Le labbra della donna si muovevano rapidamente, e benché io non potessi udire, sapevo che stava pregando. I suoi piedi pendevano uno di qua, uno di là, lungo i lati della cavalletta, e vidi che i rozzi assistenti avevano assicurato delle corde alle sue caviglie, legandone l'altro capo agli anelli di ferro infissi nel pavimento di pietra.

Mi sentii mancare, alla vista di questi funesti preparativi, eppure ero avvinto dal fascino dell'orrido, e non riuscii a staccare gli occhi dal macabro spettacolo. Un uomo era entrato nella stanza recando due secchi d'acqua. Un altro lo seguiva con un terzo secchio. I tre secchi vennero deposti accanto alla cavalletta di legno. Il secondo uomo portava anche un ramaiolo di legno, una specie di ciotola dal lungo manico diritto, nell'altra mano. Lo porse all'uomo in nero. Nello stesso istante, uno degli assistenti si avvicinò con un oggetto scuro in mano, che anche in sogno mi riempì di un vago senso di familiarità. Era un imbuto di cuoio. Con mostruosa energia egli lo conficcò... ma non potei resistere più a lungo. Mi si drizzarono i capelli dall'orrore. Mi contorsi, lottai, spezzai i vincoli del sonno e tornai con un grido nella mia propria vita, per trovarmi disteso, tremante di terrore, nell'enorme biblioteca, con la luce lunare che penetrava a fiotti dalla finestra e gettava strane ombre nere ed argentee sulla parete opposta. Oh, quale senso di sollievo provai nel sentire che ero tornato nel diciannovesimo secolo, tornato da quella cripta medioevale a un mondo dove gli uomini avevano cuori umani nel petto. Mi rizzai a sedere sul divano, tremando in tutto il corpo, con la mente divisa fra il sollievo e l'orrore. Pensare che simili cose fossero mai avvenute, che potessero avvenire senza che Dio fulminasse i colpevoli! Era stata tutta una fantasia, o rappresentava davvero qualcosa che era accaduto nel periodo più oscuro e crudele della storia del mondo? Appoggiai il capo dolorante sulle mie mani tremanti. E allora, improvvisamente, mi parve che il cuore mi si fermasse nel petto, e non potei neanche gridare, tale era il mio terrore. Qualcosa avanzava verso di me nell'oscurità della stanza.

E quando un terrore si assomma a un altro terrore, che lo spirito di un uomo si spezza. Non riuscivo a ragionare, non riuscivo a pregare; potevo soltanto restare immobile, come una statua, e fissare la tenebrosa figura che avanzava nella vasta sala. Poi la figura si inoltrò nel bianco raggio della luna, e potei nuovamente respirare. Era Dacre, e il suo volto mostrava che era spaventato quanto me.

"E stato lei? Per l'amor del cielo, che cosa succede?" chiese con voce rauca.

"Dacre, quanto sono lieto di vederla! Sono stato nell'inferno. Era spaventoso."

"Allora è stato lei a gridare?"

"Credo proprio di sì."

"Il suo grido ha echeggiato per tutta la casa. I domestici sono rimasti terrorizzati." Accese la lampada con un fiammifero. "Credo che possiamo riattivare il fuoco" aggiunse, gettando dei ceppi sulla brace. "Santo cielo, amico mio, com'è bianco il suo viso! Si direbbe che abbia visto un fantasma."

"E infatti ne ho visti più d'uno."

"Dunque l'imbuto ha sortito il suo effetto?"

"Non dormirei mai più vicino a quell'oggetto infernale per tutto l'oro del mondo." Dacre ridacchiò.

"Prevedevo che avrebbe passato una notte agitata" disse. "Ma sono stato punito, perché quel suo urlo non era molto piacevole da udirsi alle due del mattino. Arguisco da quanto mi dice che ha visto tutta la spaventosa vicenda."

"Quale spaventosa vicenda?"

"La tortura dell'acqua, o il "Trattamento Straordinario", come veniva chiamata negli amabili giorni del Re Sole. Lei ha resistito fino alla fine?"

"No, grazie al cielo, mi sono destato prima che incominciasse per davvero."

"Ah, è una fortuna per lei. Io resistetti fino al terzo secchio.

Be', è una vecchia storia, e i protagonisti sono ormai tutti nella tomba, perciò che importanza ha il modo in cui ci sono arrivati?

Suppongo che lei non abbia alcuna idea di cosa fosse quello che ha visto?"

"La tortura di qualche criminale. Quella donna dev'essere stata davvero una terribile delinquente, se i suoi delitti sono proporzionati alla punizione inflittale."

"Infatti, abbiamo questa piccola consolazione" disse Dacre, avvolgendosi meglio nella veste da camera e accucciandosi più vicino al fuoco. "Erano proporzionati alla sua punizione.

S'intende, se ho riconosciuto con esattezza l'identità della donna."

"Com'è possibile che lei conosca la sua identità?" Per tutta risposta, Dacre tolse da uno scaffale un vecchio volume ricoperto in pergamena.

"Ascolti questo" disse. "E' scritto nel francese del diciassettesimo secolo, ma mentre leggo gliene darò una traduzione approssimativa. Lei stesso giudicherà se ho risolto o meno l'enigma.

"La prigioniera venne portata davanti a uno speciale Giurì che agiva come tribunale, imputata dell'assassinio di Dreux d'Aubray, suo padre, e dei suoi due fratelli, uno dei quali tenente e l'altro consigliere del Parlamento. A giudicare dalla sua persona, sembrava difficile credere che avesse davvero commesso delle simili malvagità, poiché era di aspetto mite, e di piccola statura, con una carnagione chiara e occhi azzurri. Eppure la Corte, avendola trovata colpevole, la condannò al trattamento ordinario e straordinario, in modo da costringerla a fare i nomi dei suoi complici, dopo di che un carro l'avrebbe trasportata alla place de Grève, dove le avrebbero tagliato la testa, per bruciarne poi il corpo e spargerne le ceneri al vento."

"Questa annotazione è datata 16 luglio, 1676."

"E' molto interessante" replicai "ma non convincente. Come può dimostrare che si tratti della medesima donna?"

"Ci sto arrivando. Il racconto prosegue, e narra il comportamento della donna durante l'interrogatorio. "Quando il boia le si avvicinò, ella lo riconobbe dalle corde che teneva in mano, e subito gli tese le proprie mani, scrutandolo dalla testa ai piedi senza profferire parola." Cosa ne dice?"

"Sì, era proprio così."

"Essa guardò, senza distogliere lo sguardo, la cavalletta di legno e gli anelli che avevano straziato tante persone e provocato tante grida di agonia. Quando i suoi occhi caddero sui tre secchi d'acqua, che erano lì pronti per lei, ella disse con un sorriso:

"Tutta quell'acqua dev'essere stata portata qui allo scopo di affogarmi, signore. Non avete intenzione, spero, di costringere una persona piccola come me a ingoiarla tutta".

"Devo leggere i particolari della tortura?"

"No, per l'amor del cielo, non lo faccia."

"Ecco qua una frase che sicuramente vi dimostrerà che ciò che è riportato qui si riferisce alla medesima scena alla quale ha assistito stanotte: "Il buon Abate Pirot, incapace di contemplare le agonie sofferte dalla sua penitente, si affrettò a uscire dalla stanza". Questo la convince?"

"Assolutamente. Non può sussistere alcun dubbio che non si tratti della stessa persona. Ma chi è dunque questa donna il cui aspetto era così attraente, e la cui fine fu tanto orribile?" Per tutta risposta Dacre mi si avvicinò, e appoggiò la lampada sul tavolino che era accanto al mio letto. Sollevando l'infausto imbuto, ne voltò il bordo di ottone in modo che la luce lo colpisse in pieno. Vista così, l'incisione sembrava più chiara di quanto non lo fosse stata la sera precedente.

"Abbiamo già convenuto che questo è l'emblema di un marchese o di una marchesa" disse. "Abbiamo anche stabilito che l'ultima lettera è una B."

"Tutto ciò è indubbio."

"Mi permetto ora di suggerirle che le altre lettere da sinistra a destra sono: M, M, una d minuscola, A, una d minuscola, e poi la B finale."

"Sì, sono certo che lei ha ragione. Riesco a vedere chiaramente le due d minuscole."

"Ciò che le ho letto stasera" disse Dacre "è il resoconto ufficiale del processo di Marie Madeleine d'Aubray, Marchesa di Brinvilliers, una delle più famose avvelenatrici e assassine di tutti i tempi." Rimasi in silenzio, sopraffatto dalla straordinaria natura della vicenda, e dalla completezza dell'evidenza con cui Dacre ne aveva esposto il vero significato. Ricordavo vagamente alcuni particolari della carriera della donna, la sua depravazione senza limiti, la sua fredda e prolungata tortura del padre ammalato, l'assassinio dei fratelli per meschini motivi di lucro. Rammentai anche che il suo coraggioso comportamento di fronte alla morte aveva in qualche modo fatto ammenda per l'orrore della sua vita, e che tutta Parigi era stata solidale con lei nei suoi ultimi istanti, benedicendola come una martire, quando pochissimi giorni prima l'avevano maledetta come un'assassina.

Mi venne in mente una sola obiezione.

"Come mai le sue iniziali e il suo stemma finirono su quell'imbuto? Non posso credere che i suoi giustizieri portassero il loro medioevale rispetto per la nobiltà al punto da decorare gli strumenti di tortura con i loro titoli."

"Anch'io mi sono posto la stessa domanda" replicò Dacre "ma mi pare che sia facilmente spiegabile. Il caso destò a quell'epoca un interesse eccezionale, e niente di più naturale che "La Reyne", capo della polizia, abbia serbato questo imbuto quale macabro ricordo. Non succedeva spesso che una marchesa di Francia fosse sottoposta al trattamento straordinario. Che egli vi incidesse le iniziali di lei ad uso dei posteri, mi pare un atto molto normale da parte sua."

"E questi?" chiesi, indicando i segni sul collo dell'imbuto.

"Quella donna era una vera tigre" disse Dacre, allontanandosi. "Mi pare evidente che, come le altre tigri, i suoi denti fossero sia robusti che affilati."


Condividi

L'ospite

Jacob era decisamente felice.
Lo attendeva un week-end di assoluto riposo, come lo aveva sognato da tempo. Dopo venti abbondanti giorni di lavoro incessante si sentiva esausto. Gli venne in mente come in tutte le pause caffè, gli spuntini di mezzogiorno, le occasioni nelle quali la sua mente si era potuta staccare per un attimo da numeri, importi, relazioni ed elementi del genere, che ormai considerava come dei nemici, aveva sognato di staccare la spina, di dedicare del tempo a se stesso.
Mentre percorreva la statale la sua mente stava decisamente lavorando, forse più che in ufficio, ma su questioni assai diverse. Pensava alla sua vita, alla sua famiglia, alla misteriosa richiesta di sua moglie di andare con la loro bambina dal fratello nel Maine. In fondo lui per tre settimane era stato un padre ed un marito latitante. Perché il primo week-end di libertà lei aveva preferito trascorrerlo con il fratello? Solo in quel momento si rese conto di quanto si potesse nascondere dietro a quel gesto. E questo era decisamente grave. Non tanto il segno di per sé quanto il fatto che lui faceva fatica a rendersene conto. Questo tunnel che aveva imboccato ormai da un anno dove lo stava portando?
Il lavoro di analista finanziario gli piaceva molto. Quel nuovo posto nella banca dell'Oregon gli aveva consentito un grosso salto professionale. Ma Jacob aveva imparato a sue spese che nulla nella vita è gratis. Qual'era il prezzo di quel successo? E soprattutto: se fosse stato costretto a scegliere tra il lavoro e la famiglia che strada avrebbe preso? La risposta, nel suo caso, non era così scontata.
Pensò a suo fratello: un paio di anni prima si era infatti trovato nella stessa situazione. Una brillante carriera di chirurgo o la pace del focolare domestico turbata piacevolmente dai due pargoletti. Mike si era confidato con lui a lungo (cosa che peraltro lui non aveva intenzione di fare), sviscerando la sua vita ed analizzando come il lavoro lo avesse inconsapevolmente allontanato da ciò che amava di più: la sua famiglia. Fortunatamente scoprì di essere in tempo, fece marcia in dietro e finì a fare il tranquillo medico generico di provincia.
La situazione di Jacob era molto diversa. Da sei anni ormai la sua escalation professionale procedeva, ed il suo allontanamento dalla famiglia era tutt'altro che inconsapevole. Ora era forse arrivato ad un bivio. Avrebbe affrontato analiticamente il problema in lunedì successivo.
Curiosamente anche la strada che percorreva era arrivata ad in bivio, la cosa lo divertì. Svoltò per la collina e la strada cominciò a salire.
Scacciò brutalmente tutti i rimasugli di pensieri e pentimenti dalla sua mente. Nulla avrebbe dovuto turbare la quiete del suo meritato riposo tranne qualche libro che aveva con sé.
Cominciò a farsi strada anche la curiosità del posto in cui stava andando. L'annuncio si Internet diceva "Tranquillo casolare nella pace dei boschi secolari.". Proprio ciò che lui cercava.
Gli piacevano queste modernità: un click sul mouse ed hai pagato il conto con la carta di credito. Una mail al fattorino e trovi le chiavi sulla tua scrivania il giorno dopo. Il vecchio Gerald si era lamentato di aver faticato non poco a trovare l'agenzia, ma con una lauta mancia Jacob aveva ridato pace alla sua coscienza.
Dopo una decina di minuti di strada molto ripida si era affacciata una piccola pianura e Jacob intravide le deboli luci di un piccolo paese. In un lampo lo stava attraversando. Era più un gruppo di case semidiroccate, abbastanza tetro. In giro non c'era nessuno. Jacob guardò l'orologio: le ventitrè in punto.
Si fermò un istante per guardare la mappa che aveva stampato dal sito. In effetti un puntino indicava quell'agglomerato. Approfittò della sosta per scendere e sgranchirsi. Vide un albero sul bordo della strada in mezzo a due case. Lo usò per liberarsi la vescica. Mentre si voltava per tornare alla macchina vide due persone che lo osservavano dalla finestra di una delle case vicine.
Erano due uomini, si assomigliavano molto, ed indossavano due identiche camicie da boscaiolo.
Fece un vago cenno di saluto, a dire il vero sfoggiando una certa superiorità e risalì in macchina.
Credeva molto nella divisione delle persone in classi ed era certo che la sua fosse molto superiore a quella degli abitanti di quel luogo. Terminato questo pensiero di compiacimento sorrise e ripartì.
Poco fuori dal paesello la strada ricominciò a salire.
La mappa era abbastanza chiara: dopo il puntino una mezza dozzina di tornanti, quindi un piccolo ponte su di un ruscello dopo il quale avrebbe dovuto svoltare a destra.
Trovò la strada, se così poteva essere definita. Si trattava infatti di uno sterrato decisamente poco adatto alla sua BMW. Gli sembrò quasi un miracolo averla trovata: né la strada principale, né quella piccola traversa erano illuminate e non c'era nessuna indicazione.
Dopo un centinaio di metri la strada ricominciò a salire.
Stavolta i tornanti erano decisamente insidiosi, alcuni dovevano essere fatti con due manovre. Giudicò questo un segnale abbastanza positivo della tranquillità e solitudine del luogo. Dopo una decina di minuti cominciò ad intravedere dall'alto le deboli luci del piccolo villaggio e sorrise di nuovo. Si fermò davanti ad un ponte di legno che non gli ispirava molta solidità. Scese e lo ispezionò.
Dopo aver dato un'occhiata alle travi che lo sorreggevano decise che a dispetto delle apparenze doveva essere abbastanza solido. Si trovava però su di uno strapiombo molto alto. Al buio non ne vedeva chiaramente il fondo.
Risalì in macchina e vi passò sopra. Fece ancora circa mezzo chilometro e si trovò in uno slargo. La casa era sul lato opposto.

***

Dopo aver preso il suo borsone sportivo chiuse la macchina e si fermò un istante ad osservare la casa. La luce della luna consentiva di apprezzarne abbastanza bene i dettagli.
Doveva essere antica, forse di inizio secolo, ma ben tenuta. Le finestre del primo piano erano decorate con un fregio che contornava tutto il bordo, non particolarmente lussuoso ma decisamente di classe. La mansarda spiovente aveva le pareti in legno. Pensò che se fosse stata sua avrebbe da tempo eliminato quel legno: troppo pericoloso in caso di incendio, specialmente con un incallito fumatore come era lui. Appoggiò il borsone davanti alla porta e fece un giro seguendo il perimetro. Le finestre del primo piano erano molto grandi, e protette da spesse sbarre di ferro. Il lato posteriore si affacciava su uno strapiombo.
Diede una rapida occhiata alla piccola testa di leone che faceva da batacchio, quindi infilò la chiave ed aprì.
La porta si rivelò abbastanza pesante, forse anche per la stanchezza del viaggio. Entrò ed accese la luce.
Quel posto era decisamente affascinante. La prima cosa che notò fu lo scalone semicircolare sulla destra che conduceva alla balaustra del primo piano. Seguendo visivamente la scala notò il lampadario. Un oggetto decisamente imponente a dispetto della luce non troppo abbondante che emanava.
Jacob si mise un istante ad ascoltare il silenzio, totale, pacifico, quando un suono raggiunse come un macigno le sue orecchie. "Don,Don..trick,trick..Don,Don". Nell'angolo opposto c'era un orologio a pendolo che suonava le undici e mezza. Se era carico probabilmente la casa non era deserta da molto. A giudicare dalla poca polvere sul corrimano della scala era stata probabilmente occupata anche il week-end precedente.
Il suono del pendolo lo aveva leggermente irritato, in particolare quel rumore di ingranaggi consunti tra uno scampanio e l'altro. Si ripeté mentalmente la frase pensata poco prima in macchina: nulla avrebbe turbato il suo riposo. Si avvicinò al pendolo e cercò di aprire lo sportello per disattivare il meccanismo. Chiuso a chiave. Non doveva essere un problema. I suoi nervi, così sfibrati non dovevano essere ulteriormente messi alla prova da piccolo inconvenienti. Convenne che sarebbe riuscito semplicemente ad ignorare il rumore.
Da buon analista fece un programma per la serata, sapendo che sarebbe stato l'ultimo. Dal giorno dopo infatti tutto sarebbe stato lasciato all'improvvisazione, al caso: avrebbe fatto quello che gli fosse venuto in mente nel momento in cui gli veniva in mente.
Decise che per quella sera avrebbe fatto solamente un giretto panoramico della casa, dopodiché sarebbe andato a dormire.
Percorse il pavimento in marmo dell'ingresso ed imboccò il corridoio dal lato opposto. Il corridoio si spegneva con un muro spoglio. Pensò che fosse un peccato non averlo adornato con un quadro, uno di quegli imperiosi quadri antichi che si trovano nei mercatini.
Il lato sinistro del corridoio aveva due porte, una aperta che conduceva ad una piccola stanza da bagno, a l'altra chiusa. Sul lato destro vi era un'apertura ad arco, molto accattivante, che conduceva al salone.
Il salone era decisamente arredato con classe: un imponente camino nell'angolo, tre divani in velluto bordò ed un basso tavolo di legno dalle gambe scolpite. Soddisfatto di questa panoramica del salone, data tuttavia senza entrarvi, si voltò, tornò nell'atrio, prese il borsone ed imboccò lo scalone.
Ai lati della scala erano appesi alle pareti degli strani quadri che colpirono la sua attenzione: narravano scene di vita di un piccolo villaggio. In uno riconobbe un certo albero. I quadri erano realizzati con una certa maestria, ma i personaggi ritratti erano decisamente anomali: indossavano tutti la stessa camicia da boscaiolo, erano tutti uomini e non avevano occhi.
Pensò alla macabra fantasia di un pittore non completamente a posto con le rotelle, il genio fa spesso di questi scherzi, e proseguì.
Giunto alla balaustra del primo piano diede un occhiata al corridoio. Era identico a quello di sotto, ad eccezione di una scala sul muro dal lato opposto, dall'aspetto assai poco solido. Probabilmente conduceva in soffitta.
Le due porte sul lato sinistro conducevano nel bagno (un po' più grande dell'altro) ed in una camera da letto che odorava parecchio di chiuso.
Si ricordò di aver ignorato la seconda porta del piano di sotto. Probabilmente era la cucina, lo avrebbe scoperto la mattina seguente a colazione.
La porta a destra conduceva in una grande ed accogliente camera da letto, anch'essa dotata di camino nella stessa posizione del salone.
Appoggiò il borsone per terra e si lasciò cadere sul letto.
Gli mancava la sua famiglia. Cercò di memorizzare il sentimento che stava provando; se avesse esagerato con il lavoro avrebbe dovuto imparare a conviverci. Pose da parte questo elemento per la meditazione del lunedì e si apprestò a togliersi le scarpe.
Aveva sete, molta sete. L'eccitazione che lo accompagnava sempre nei posti nuovi gliela aveva fatta sopportare, ma ora doveva bere. "La spesa!". Aveva dimenticato in macchina il sacchetto delle provviste fatte alla stazione di servizio.
Per tutta la sua vita avevano dovuto combattere in lui smemoratezza e pigrizia, ma ora c'era anche la sete.
Si rimise le scarpe e si alzò.
Un piccolo scoppio proveniente dal piano inferiore precedette il buio nella casa.
Jacob odiava i piccoli inconvenienti domestici, la mancanza di corrente, le perdite d'acqua, tutte quelle occasioni che minavano la sua precisione nella programmazione di ogni attimo della giornata. Ogni problema doveva essere risolto per non generarne uno maggiore, ma ogni soluzione comportava un impiego di tempo che non era stato precedentemente pianificato: questa brevemente la motivazione del suo odio.
Fortunatamente si trovava in vacanza, poteva permettersi qualche minuto di fuori-programma, ma era molto stanco, avrebbe voluto prendere la spesa dalla macchina e ributtarsi a letto, senza doversi occupare di quel problema.
Decise di cominciare a scendere: se la luce della luna che filtrava dalle finestre fosse stata appena sufficiente a non precipitare dalle scale avrebbe probabilmente rimandato il problema "corrente" al giorno dopo.
Tastando le pareti si diresse verso la scala e scese un paio di gradini, poi si fermò ad osservare l'atrio.
La luce era decisamente sufficiente, ed anche abbastanza affascinante: creava, insieme all'ambiente, un'atmosfera a lui sconosciuta, forse un po' tetra ma abbastanza eccitante.
Notò un particolare che aveva probabilmente ignorato nella rapida occhiata precedente: sull'angolo sinistro rispetto alla porta c'era un oggetto sferico a circa un metro d'altezza, probabilmente sopra ad una specie di piattaforma, che luccicava debolmente con la luce della finestra immediatamente sopra.
Non ebbe tempo di chiedersi cosa fosse, la sfera ruotò leggermente e i si trovò due fori nella sua parte frontale che lo fissavano.
Si girò di scatto inciampando negli scalini, e rialzatosi un po' goffamente si precipitò in camera da letto.
Il suo respiro era affannoso, il cuore gli batteva all'impazzata, era terrorizzato a morte.
"Cosa o chi diavolo era quel coso?"."Calmati Jacob, hai avuto un'allucinazione. Una banale allucinazione.".
Tendenzialmente le persone molto riflessive tendono a rifiutare gli eventi fuori dal comune, la visione di cose impossibili. Jacob non faceva eccezione. Pochi secondi dopo si era già calmato. Non aveva avuto bisogno di convincersi, bastavano pochi secondi per inculcare nella propria mente la certezza della spiegazione logica. La stanchezza, lo stress, il buio ed una miriade di altri fattori gli avevano giocato un brutto tiro.
Come se nulla fosse accaduto uscì dalla camera da letto.
Si impose di non arrestarsi sulle scale per verificare se la sfera ci fosse ancora: sarebbe stato un segno di debolezza, quell'oggetto non esisteva o non era dotato di occhi e di movimento. Non avrebbe dovuto averne nessun dubbio.
Imboccò le scale come se stesse passeggiando a zonzo in un prato.
Era orgoglioso di sé, della sua razionalità e del suo autocontrollo.
A metà circa delle scale diede un'occhiata alla pianta: di fianco, sotto la finestra non c'era assolutamente nulla. Stava quasi per sorridere quando di colpo un altro macigno raggiunse le sue orecchie. "Don,Don..trick,trick..Don,Don".
Avrebbe voluto disintegrare quel maledetto pendolo, ma si calmò subito: problema già affrontato e rimandato al giorno successivo, programma definito, nessuna variazione ammessa.
Finì di scendere le scale ed afferrò la maniglia della porta. Era chiusa.
Cercò di ricordare se l'avesse chiusa, anzi, non vi era dubbio che l'avesse chiusa lui, non vi era alcun dubbio, assolutamente nessun dubbio. Ma dove aveva messo la chiave?
Decise di attuare la sua solita tattica: cercare mentre si cerca di ricordare. A casa sua solitamente appena entrato posava la chiave sul tavolo del salotto: avrebbe cominciato da lì. Si voltò per dirigersi verso il corridoio.
Stavolta vide la creatura molto chiaramente, era ferma all'inizio del corridoio, e lo fissava.
Decisamente non era un essere umano, era alta più o meno un metro, senza vestiti, col busto cilindrico e le gambe che costituivano circa un terzo dell'altezza, mentre le braccia, grazie a dita smisurate, sfioravano quasi il pavimento. La testa calva aveva forma ovale, ma era in orizzontale. E non aveva bocca.
Jacob urlò, per una frazione di secondo. Quella successiva fu dedicata alla ricerca di una via di fuga: porta chiusa, finestre sbarrate e corridoio occupato. Come un fulmine salì le scale e si chiuse in camera, tenendo saldamente la maniglia dall'interno.
Questa volta non bastò una breve riflessione a calmarlo. L'aveva visto! Ne era certo. Non sapeva cosa fosse e che intenzioni avesse, ma c'era!
Non solo era terrorizzato per la presenza di un pericolo in una casa in cui era chiuso dentro, ma soprattutto per l'impossibilità di dare una spiegazione logica a ciò che i suoi occhi avevano visto.
Fece un sospiro e cercò di pensare. La risposta venne da sé: fuggire, fuggire e anche in fretta. Per le domande, le riflessioni, i sui maledetti schemi mentali c'era tutto il tempo. Doveva fuggire.
Lentamente aprì la porta, mise la testa fuori dalla stanza ed osservò a sinistra, verso la scala ed a destra, verso la fine del corridoio. Era lì, appoggiata al muro. In quel punto non c'era un filo di luce, non la vedeva, ma sapeva che era lì, lo sentiva, sentiva il suo terrore esplodere guardando in quella direzione.
Uscì di scatto e si precipitò giù dalle scale.
Afferrò la maniglia della porta con tutta la sua forza. Nulla. La porta sembrava cementata nel terreno.
"Le chiavi! Dove sono quelle maledette chiavi!?!?!"
Si voltò, il corridoio era vuoto, buona occasione per il salotto.
Entrò e scoprì con piacere che la luce della luna non mancava. Cercò affannosamente sul tavolo, rovesciando alcuni soprammobili. Niente. Superò il tavolo per guardare sulle mensole del lato opposto, vuotandole con una mossa del braccio. Nulla. Si girò per tornare sul lato dell'ingresso ma inciampò nella gamba del tavolo e cadde.
Una volta toccato il terreno si sentì come paralizzato. Non poteva muovere nulla tranne gli occhi. Sentì qualcosa entrare nella sua mente. Non riusciva a pensare, ad essere terrorizzato, la sua mente era come occupata da qualcun altro, qualcuno che cercava di depositarvi un messaggio, un pensiero, ma con termini incomprensibili. Impossibile determinare per quanto tempo rimase in quella condizione, ma ad un certo momento cominciò a riprendere lentamente il controllo di se stesso. L'onda mentale che lo aveva investito stava gettando la spugna.
Quando si sentì in grado si alzò ed uscì di corsa dal salotto. Dallo slancio si trovò davanti alla porta, dove la creatura lo aspettava appoggiata. La creatura mosse di scatto il braccio, che lo colpì ad un fianco scaraventandolo all'inizio delle scale.
Si rialzò e corse al piano superiore, d'istinto entrò in bagno e si chiuse a chiave.
Era in trappola, un topo in gabbia, doveva trovare una via d'uscita.
Aprì la finestra del bagno: niente sbarre! Incoraggiato dalla scoperta guardò fuori: c'era una grondaia affissa una ventina di centimetri a destra della finestra. Avrebbe retto? Risposta irrilevante, era la sua unica possibilità.
Scavalcò la finestra e si aggrappò alla grondaia. Il tubo di ferro arrugginito si staccò dalla parete, piegandosi sotto il suo peso, ma abbastanza lentamente, e lo depositò dolcemente sul tratto di cortile a destra della casa.

***

"Sono fuori!","Sono fuori!". Ripetè questa frase mentalmente per almeno una dozzina di volte prima di rendersi conto che non poteva assolutamente perdere ulteriore tempo.
Correndo attraverso il cortile vide le luci di una ventina di torce che da fondo valle si apprestavano ad imboccare la strada verso la casa. Solo un'occhiata e continuò a correre. Pensò che dovevano essere abitanti del villaggio che avevano notato movimento verso la collina e venivano a verificare se tutto fosse a posto. Un pensiero che giudicò senza importanza. Era arrivato alla macchina. Salì in fretta e furia e infilò le chiavi. Pensò per un istante a quanti film horror avevano una scena simile a quella in cui all'ultimo momento la macchina non parte. Girò la chiave. La macchina partì e lui rise nervosamente.
Imboccò il viottolo a tutta velocità. Dopo un centinaio di metri si accorse che la strada era illuminata solo dal riflesso della luna, accese i fari, troppo tardi per rendersi conto che il ponte di legno non c'era più. Sentì la macchina mancargli da sotto, il pendio era molto ripido. Con una rapidità che non sapeva di possedere aprì la portiera e si lanciò fuori.
Mentre la macchina precipitava puntando verso destra lui rotolava verso sinistra, e strisciando tra le sterpaglie si ferì alle braccia. Nel tentativo di afferrare un arbusto sentì un dolore tremendo ad una mano, si era ferito in modo abbastanza serio. Dopo frazioni di secondo sentì uno schianto, la macchina si era fermata in un piccolo tratto pianeggiante, dove lui stesso atterrò poco dopo. Nella caduta fortunatamente non si ruppe nulla, ma la mano sanguinava copiosamente, dovette quindi fasciarla alla meglio con il fazzoletto.
Si accorse di un altro taglio abbastanza profondo al braccio destro, la camicia era strappata e non aveva nulla per tamponarlo. Decise di ignorarlo finché fosse stato possibile. Il problema principale ora era un altro: dove era finito e come avrebbe potuto ritornare a valle. Si guardò intorno: la piccola pianura era semicircolare, del diametro di una decina di metri. Di fronte a lui c'era ancora strapiombo, sarebbe stato troppo rischioso scenderlo, una piccola scivolata e si sarebbe trovata della poltiglia umana a valle, in fondo era già stato fin troppo fortunato: la dimenticanza dei fari poteva essere pagata seriamente, meglio non giocare troppo con la fortuna, anche se le scelte erano ben scarse. Dietro di sé non c'era nulla. Non aveva via d'uscita, si fermò quindi a pensare con le spalle allo strapiombo, quel tanto che basta per accorgersi di qualcosa nella montagna: l'ingresso di una grotta seminascosto da piante. Si rese conto che era l'unica via da tentare ma se non avesse eliminato le piante non avrebbe avuto neanche quel filo di luce che la luna gli poteva dare.
Incurante del dolore alla mano afferrò una ad una le piante che scendevano dall'alto e con tutto il suo peso le estirpò.
Entrò nella grotta con cautela ma rapidamente, facendo particolare attenzione ad eventuali rumori. In pochi secondi raggiunse il limite oltre il quale non c'era più luce.
Stava quasi per girarsi e tornare indietro quando intravide qualcosa luccicare debolmente nel buio.
La osservò bene, ma credette fermamente di avere un'allucinazione: era una maniglia.
Lentamente i suoi occhi si abituarono alla semioscurità della grotta e poté vederla bene: a circa venti metri dall'ingresso della grotta c'era una porta. Per qualche motivo che non seppe spiegarsi (forse la sua irrefrenabile curiosità, che spesso nella sua vita aveva avuto il sopravvento sulla paura) si lanciò davanti alla porta ed afferrò la maniglia. Era fredda, ma non come ci si aspetterebbe dal metallo in mezzo ad un bosco in piena notte. Stette qualche secondo immobile, in piedi davanti alla porta afferrando la maniglia, quando improvvisamente sentì un rumore di rami spezzati provenire da fuori, ma non molto, la grotta. Non ebbe esitazione, aprì la porta e si immerse nella totale oscurità che vi era all'interno. Sentì la porta richiudersi alle sue spalle.

***

Una vita nel campo dell'analisi finanziaria gli aveva decisamente lasciato un'impronta. In qualsiasi situazione, anche la più terrificante trovava lo spirito di fermarsi ad analizzare gli elementi in suo possesso. Così stava facendo in quel momento. Era al buio, in un luogo sconosciuto, disarmato, nella sua vita era entrata una creatura che forse aveva definitivamente lasciato alle sue spalle, ma forse no, non sapeva che genere di creatura fosse, forse un uomo tremendamente deformato, forse un essere proveniente da un altro pianeta, di certo aveva cercato di farlo prigioniero nella casa e ciò non ne faceva sicuramente un elemento amico. Le informazioni non erano così scarse, ma totalmente insufficienti per trarre qualsiasi conclusione. Si scoprì incredibilmente rilassato, in fondo aveva appena fatto una analisi, e quello era il suo lavoro: aveva compiuto un'azione che lo aveva riportato mentalmente nel mondo normale, e questo gli diede un po' di sollievo. Di colpo aggiunse un dettaglio alla sua analisi, e questo dettaglio fu decisivo per dichiarare la situazione irrisolvibile razionalmente: cosa ci faceva una porta in fondo ad una grotta? E soprattutto a cosa lo aveva condotto?
Erano passati probabilmente una trentina di secondi da quando la porta si era richiusa ma non si volle mettere fretta. La situazione doveva essere considerata con lucidità.
Vi erano mille spiegazioni possibili per la porta: un nascondiglio per contrabbandieri, un rifugio di guerra, tutti luoghi assai meno pericolosi di ciò che aveva appena lasciato e probabilmente di ciò che aveva spezzato i rami poco prima.
I suoi occhi avrebbero dovuto abituarsi anche a quell'oscurità, ma così non fu.
Il buio era totale.
Non aveva mai avuto paura del buio, ma quella situazione ridisegnava il concetto di buio: quel buio era, a suo giudizio, una potenziale fonte inesauribile di pericolo. Gli eventi di quella sera avevano minato alle radici il suo concetto di realtà, di razionalità, di ciò che può essere e ciò che non può essere. In quel buio tutto era possibile. Decise che forse la cosa più sensata da fare era provare prudentemente ad uscire, ascoltando prima eventuali rumori dall'esterno. Stava già mentalmente ripercorrendo il percorso verso l'apertura della grotta e fisicamente avvicinando l'orecchio alla porta.
L'orecchio si appoggiò, ma non ebbe quella sensazione tiepida di legno che si aspettava. La superficie su cui il suo orecchio poggiava era fredda e ruvida. Preso dal panico avvicinò le mani alla maniglia ma non afferrò nulla, tastò nervosamente la superficie ma trovò solo muro. Pensò che probabilmente era entrato in diagonale e meditando si era inavvertitamente spostato trasversalmente. Tastò quindi il muro scorrendo in una direzione e nell'altra per circa 4 metri ma non trovò nulla. La porta era scomparsa.
Come un automa si voltò, rimettendosi nella posizione di prima, spalle alla ex-porta, schiena leggermente incurvata e braccia annodate sul petto. Rispetto all'analisi precedente i parametri erano forse un po' cambiati, ma lui era Jacob Green, uno dei migliori analisti di Los Angeles. Benedì la sua megalomania, che in quel momento riuscì a distrarlo brevemente dal terrore. Con assai meno lucidità di prima decise di rimettersi ad analizzare la situazione.
Non riuscì a farlo.
Un suono, benché debole, lo colpì come un macete. "Don,Don..trick,trick..Don,Don".
Sorrise, e la sensazione delle sue guance che si distendevano gli diedero la consapevolezza che stava perdendo la ragione. Si trovava ancora nella casa. Era talmente terrorizzato da non chiedersi neanche come fosse stato possibile. Finito lo scampanio dell'orologio cercò di ascoltare qualsiasi minimo rumore. Nulla.
Respirò profondamente, deglutì la saliva più amara della sua vita, sentì in bocca il sapore di quando si sta per rimettere. Respirò ancora profondamente e si rimise a pensare.
Il suo primo pensiero era che forse non stava impazzendo del tutto, era ancora in grado di analizzare con lucidità, sebbene estremamente ridotta. Pensò al suo stato di pericolo, si rese conto che cresceva proporzionalmente al tempo. Finita questa brutta vicenda si sarebbe preso una lunghissima vacanza, ed avrebbe riorganizzato la sua vita in modo da essere meno influenzato dalle strutture mentali tipiche del suo lavoro, che anche in quei momenti di terrore lo accompagnavano. D'altra parte non poteva ricondurre qualsiasi momento esistenziale a numeri e formule.
Per la prima volta da quando era al mondo non sapeva realmente cosa fare, in che direzione muoversi. Non si ricordava in che modo si mette un piede davanti all'altro e come si poteva definire quest'azione con un unico verbo. Decisamente la sua mente cominciava a tirargli brutti scherzi.
Di colpo gli venne una fitta al braccio destro, il punto del suo corpo, dopo la mano, più ferito. Forse vi era rimasto qualche frammento di legno. Problema secondario. "Anche se mi si staccassero improvvisamente le gambe sarebbe un problema secondario! Jacob concentrati! Devi uscire vivo da questo posto!".Lo aveva detto a voce alta? Chissà, proprio non se lo ricordava. Non era bello però con un mostro al piano di sotto mettersi ad urlare. Respirò, e si rese conto di aver ripreso il controllo.
Con una forza psicologica venuta da chissà dove fece un paio di passi in avanti. Il pavimento era probabilmente in cotto, assai silenzioso. Questo lo tranquillizzo un po', sentì di essere in grado di procedere ancora. Fece tre ulteriori passi e cominciò ad intravedere un po' di luce dal basso, quattro o cinque metri di fronte a lui. La luce era molto debole ma dopo tutta quell'oscurità gli sembrò fosse spuntato un sole in quella stanza.
"La scaletta!". Questa volta lo aveva detto mentalmente, ne era certo. Proprio la scaletta che conduceva, presumibilmente in solaio, l'unica parte della casa in cui non si era avventurato. Aveva avuto paura che la scaletta non fosse molto solida, era venuto il momento di appurarlo.
Procedette a grandi passi verso la luce, finché vide la scaletta chiaramente. La imboccò ma si fermò sul primo gradino. Lo slancio lo spingeva a scenderla rapidamente, ma decise che era meglio procedere con prudenza.
Stranamente il gradino non aveva fatto il minimo rumore.
Ne fece altri tre e si fermò ad ascoltare. Nulla.
Scese ancora un paio di gradini, quel tanto che basta per potersi abbassare e dare un'occhiata al corridoio del primo piano. Il corridoio era deserto. Finì la scaletta rapidamente, imboccò di corsa il corridoio fino al parapetto che dava sull'ingresso. Dal piazzale salivano le voci di molte persone e la luce di un certo numero di torce.
Urlò con tutta la forza che aveva in gola, vocali senza senso, un grido disperato d'aiuto.
Mentre gridava continuò ad analizzare l'ingresso, alla ricerca della creatura e di una eventuale via di fuga. Di scatto, senza una apparente ragione si voltò.
La creatura lo fissava appoggiata allo stipite della stanza da bagno.
Scese lo scalone in un attimo, afferrò la maniglia della porta e la tirò con una forza che non sapeva di avere.
La porta cigolò rumorosamente ma non si aprì.
Si voltò e vide che l'ultima porta in fondo al corridoio del piano terra, quella della cucina, era aperta. Corse lungo il corridoio fino a fermarsi con le braccia contro il muro.
La cucina, l'unica via di scampo che non aveva tentato. Guardò dentro e vide la cosa più bella mai vista in vita sua.
Pensò per una frazione di secondo alla sua famiglia: il giorno delle sue nozze, la nascita di sua figlia, scampoli di allegria rispetto alla gioia che provava in quel momento.
Sulla parete opposta all'ingresso la cucina aveva una finestra priva di sbarre. Si lanciò come una furia, tuffandosi contro il vetro. La finestra si ruppe. Mentre la attraversava si riacutizzò il dolore alla mano.
Dopo un istante cadde come un sasso sul terreno. Si alzò di scatto, e d'istinto si guardò il braccio che aveva ricominciato a sanguinare copiosamente. Tenendoselo con la mano corse verso il piazzale.
La luce della ventina di torce concentrate illuminava il piazzale abbastanza debolmente, ma a quella luce si aggiungeva il sollievo di essere finalmente uscito. Diventava così la luce più meravigliosa che avesse mai visto.
Gli abitanti del villaggio gli vennero incontro.
La gioia, lo scampato pericolo, la debolezza data dalle ferite lo stavano facendo barcollare. Un paio di persone lo afferrarono e lo aiutarono a sedersi per terra. Non aveva ancora detto nulla e sembrava che le parole non riuscissero ad uscire tanta era la tempesta di sentimenti che lo aveva investito. Sorrideva, di questo ne era certo, e sorridevano anche i suoi nuovi amici. Lo guardavano, parlottavano tra di loro, dicevano anche a lui qualcosa che però non riusciva a comprendere. I muscoli della schiena lo abbandonarono e si sdraiò completamente. Due forti braccia lo accompagnarono nella discesa. Adesso stava proprio ridendo, di un riso nervoso e fragoroso.
Due persone gli stavano esaminando la mano ferita. Alzò leggermente la testa per osservarle. La nuca cominciò a fargli male ma non si abbassò.
Uno degli uomini che sorreggeva la sua mano cominciò a ridere fragorosamente. Credette di avere un'allucinazione quando notò che un altro uomo si avvicinò al suo braccio ferito e cominciò a leccare il sangue che continuava ad uscire. Contemporaneamente vide la bocca dell'uomo che rideva aprirsi fino a diventare larga una spanna abbondante.
Ebbe la certezza che ciò che vedeva era realtà quando quest'ultimo gli tolse il fazzoletto dalla mano ferita, se le infilò in bocca e chiudendola di scatto gliela tranciò di netto.
L'urlo che seguì si era seguito probabilmente a miglia di distanza. Mentre l'uomo con la mano in bocca masticava con uno sguardo decisamente compiaciuto si sentì trascinare per le gambe. Dopo qualche secondo il dolore pulsante al moncherino della mano venne coperto da quello di un poderoso morso alla coscia.

***

Spesso la letteratura parla di cosa una persona pensi quando si rende conto di stare per morire.
Si dice che gli torni in mente la sua vita, alcuni attimi salienti che ti passano davanti agli occhi come un flash, oppure la sua famiglia, i volti delle persone care, i loro gesti, magari insignificanti, ma così unici per tutti noi.
Si dice anche che il tempo sembri fermarsi, che quei pochi secondi consentano di ricordare come se si sfogliasse un album per diversi minuti. Jacob riusciva a ricordare solo la creatura. E un pensiero improvviso nella sua mente gli sembrò ancora più spaventoso dell'orrore che lo attendeva: la creatura stava cercando di salvarlo da quella gente. Quell'essere proveniente da chissà quale pianeta o mutazione genetica voleva avvertirlo del pericolo, ma incapace di comunicare poteva solo cercare di trattenerlo nella casa.
I suoi metodi così violenti e terrorizzanti erano l'unica speranza di salvare Jacob. Ma ormai era troppo tardi. La creatura non poteva uscire dalla casa, la cui atmosfera mistica le dava la linfa vitale. Nulla avrebbe più salvato Jacob, questo lo sapeva per certo, ma non ebbe il tempo di disperarsi. Un potente morso al collo lo strappò da questi suoi ultimi pensieri.


Condividi


Pagine 1 2 3 4
Ciccina.it®  è una realizzazione Art Design
Tutti i diritti riservati.