martedì 23 aprile 2024
Racconti d'Orrore

IL TRENO

Stava lì, appoggiato al parapetto del cavalcavia in attesa che passasse il treno. Anche da bambino passava delle ore in attesa di veder apparire il pennacchio di fumo e udire la sirena che annunciava l'arrivo di quell'insieme di vagoni sferraglianti. Poi correva al parapetto opposto per vederlo fuggire via e restava fermo finché poteva vederne i fanalini o udirne il rumore. Quanti anni erano passati! Adesso non c'era più il fumo a disegnare una grossa virgola nel cielo settembrino, ma la magia del treno resisteva a tutto. Solo il paesaggio non era cambiato. Gli stessi filari di cipressi, arroganti contro un cielo assolutamente terso in cui brillavano, ammiccanti, le stelle; un cielo in cui si avvertiva un presagio, come un suggerimento d'inverno; lo stesso fiumiciattolo che scorreva poco più in là e che, nel pieno dell'estate mostrava tutti i sassi piatti e bianchissimi del fondo e ora iniziava appena ad ingrossarsi, per poi diventare una presunzione di torrente; la stessa campagna, gli stessi colori, lo stesso profumo indeciso che hanno le stagioni quando cambiano, con un ricordo d'estate e una promessa d'autunno. Tutto eguale, soltanto lui era cambiato. E non soltanto per gli anni trascorsi, perché da bambino si era lentamente trasformato in un uomo anziano, ma perché era cambiato dentro, incredibilmente, assolutamente, irreparabilmente cambiato. Di uguale ad allora gli era rimasta soltanto la passione per i treni. Quanto l'aveva preso in giro lei per questa sua continua voglia di andarli a vedere, di parlarne; era anche in corrispondenza con persone che avevano il suo stesso interesse e poterne discutere, sia pure per lettera, lo faceva sentire meno solo e meno... stupido. - Stupido, ho sposato un uomo assolutamente irresponsabile, incapace e incredibilmente stupido. Perché poi l'avrò fatto, Dio solo lo sa, ero giovane, bella, intelligente... magari tanto intelligente no, ché altrimenti non mi sarei certo fatta incantare dai tuoi occhi e dalle tue promesse. Promesse, promesse, promesse... che saremmo andati via dal paese, saremmo andati a vivere in città, in una casa decente, che ti saresti trovato un lavoro dignitoso... ma già, tu figlio di contadini sei e tale resterai tutta la vita... "E’ vero, pensava lui - che ad un certo momento smetteva di ascoltare - è vero, sono figlio di contadini e contadini poveri. Mia madre e mio padre hanno sempre lavorato la terra e badato agli animali, ma non li ho mai sentiti insultarsi come lei fa con me e quando papà è morto, mamma mi ha detto soltanto "sono con lui" e poi è andata a dare il mangime ai polli, ma c'era un amore infinito in quelle parole, un amore che non ho mai sentito nelle sue..." Quando lui si era comprato un trenino con tanto di rotaie, una cosa semplice, da bambini, lei lo aveva insultato pesantemente per più giorni, accusandolo di egoismo, infantilismo, pocaggine. Lui l'aveva sistemato in cantina, in modo che non ingombrasse la casa e stava bene attento ad usarlo quando lei era a letto o fuori con le amiche. Gli sembrava di sentirla "ha il complesso di Peter Pan, ho sposato un bambino, fosse almeno capace di farne di suoi di bambini" e lì una sghignazzata lasciando intendere che anche in quello era lui carente. Glielo aveva riferito una delle sue "amiche", cercando di sedurlo, forse per vedere se quell'accusa ne nascondesse anche una d'impotenza. È vero, bambini non ne erano venuti e non certo perché lui non li avesse desiderati. Poi, un giorno, lei gli aveva detto chiaramente che non voleva più avere rapporti fisici, che lui non le piaceva più, anzi, le faceva anche un po' schifo. Sospettava che avesse una relazione con il fornaio, ma la cosa non gli interessava più di tanto. Si era scavato una specie di tana mentale, da cui escludeva tutto quello che la riguardava e trascinava la sua esistenza così, senza una donna da amare, senza un bimbo da far crescere, senza interessi, lavorando duramente la terra. Ma la terra, si sa, non è che renda mai molto e certi anni è addirittura ingenerosa, ora c'è l'alluvione e ora la siccità; ora i raccolti sono talmente scarsi che bastano a stento per la sopravvivenza, ora sono talmente abbondanti che il prezzo di mercato cala paurosamente, quindi era un continuo brontolare, lagnarsi, recriminare. Lui si rasserenava quando poteva andare a far funzionare il suo trenino. Aveva costruito case e ponticelli, una piccola stazione, una serie di botteghe che aveva posto al di là di una precaria massicciata; aveva messo muschio e rametti e sassolini e zolle di terra. Aveva, insomma costruito il panorama ideale per il suo treno e passava molte ore della sera a vederlo andare, a immaginare, fantasticare. Viaggiava con la fantasia molto più di quello che aveva mai fatto o avrebbe mai potuto fare, era la sua oasi, la sua serenità, fino a quando... Lei era particolarmente irritabile in quel periodo, lui sospettava che fosse finita la sua avventuretta extraconiugale, certo è che lo aggrediva verbalmente più del solito, lo prendeva in giro quando arrivava la posta dei suoi corrispondenti, lo minacciava di "fargli uno scherzo di cui si sarebbe ricordato." Era tornato tardi dai campi, quella sera; lei non c'era, la casa era insolitamente in ordine; per un attimo pensò che se ne fosse andata definitivamente e la prospettiva gli sembrò allettante. Sul tavolo della cucina c'erano una pagnotta, dei pomodori, la bottiglia dell'olio e uno spicchio di aglio. Era un pasto che, tutto sommato, non gli dispiaceva e, se fosse stato fortunato, lei sarebbe tornata tardi e lui avrebbe potuto leggere in pace due lettere che erano arrivate il giorno prima e non aveva ancora potuto aprire e passare qualche tempo sognando con il suo trenino. Mentre mangiava rifletteva sulla sua vita e fu con un grande sospiro che si levò da tavola, rigovernò le poche cose che aveva sporcato e si avviò verso lo scantinato. Ogni passo che faceva, però, non gli dava quella sensazione di gioiosa anticipazione che provava sempre quando poteva scendere a rimirare il suo plastico, c'era nell'aria come una forza maligna, un che di negativo che gli rendeva i passi ed il cuore pesanti. Scese la stretta scala, accese la luce e... vide. Tutto distrutto. E non con la cieca furia che può, forse, essere giustificata, ma con una malevola determinazione. Tutto fatto a pezzi, con un martello, con le mani, preso a calci, dilaniato. Si sedette, muto, ad osservare; si alzò, spense la luce, salì le scale e andò a letto. Ora, in quella bella serata settembrina, era lì, come tanti anni fa, appoggiato al parapetto del cavalcavia e aspettava che passasse il treno. Lo sentì arrivare, prima di vederlo, da una vibrazione che gli si trasmise dai piedi all'anima, poi, finalmente, sbucò da dietro la curva e gli venne incontro. C'erano le luci negli scompartimenti, sembravano un invito "vieni, vieni, vieni." E lui afferrò la moglie, inerte per una botta in testa, ma assolutamente viva, la issò sul parapetto e con implacabile, incredibile tempismo la lasciò cadere davanti al treno nel momento preciso in cui questo passava sotto il cavalcavia.

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IL LAGO

Quel giorno per Steve divenne un vero incubo.
Era in barca su un piccolo lago a poche centinaia di chilometri dal suo paese per una gita ed ora si trovava a lottare con un mostro orribile.
Una ragazza con sembianze di zombi lo afferrò per un braccio per portarlo sul fondo.
Al contatto con quella creatura il ragazzo ebbe una visione, un flash back, quasi un contatto telepatico.
Il luogo sembrava essere lo stesso ma la scena sembrava di parecchi anni prima.
Una ragazza urlava mentre veniva legata a delle enormi pietre.
Dinnanzi ad essa un sacerdote pronunciava delle parole in lingua antica, forse aramaico.
Le donne e gli uomini attorno a lui pregavano e guardavano terrorizzati la scena. Le urla della ragazza erano strazianti, poco lì vicino alcuni giovani la schernivano e pronunciavano parole di odio nei suoi confronti e la ragazza disperata giurava vendetta mentre veniva gettata viva nel lago.
Le acque si agitarono, il cielo venne illuminato a giorno da lampi spaventosi.
Una scena orribile, raccapricciante, forse l’esecuzione della sentenza di un processo inquisitorio contro una strega attorno al 1400.
Una volta assistito con la mente a questa visione orribile, Steve si abbandonò alla creatura che in un attimo portò sul fondo lui e l’imbarcazione.
Quello che aveva visto era orribile, aveva fatto i conti con la propria coscienza e sentiva di dover rendere qualcosa a quella giovane che, dopo essere stata gettata in quella distesa d’acqua centinaia di anni prima, non riusciva a darsi pace.
Steve si era visto in quel gruppo di ragazzi che inveiva contro la ragazza, che la scherniva, che la privava di ogni dignità.
Grazie a quella visione capì, troppo tardi, che non era capitato in quel posto per caso...


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IL FUNERALE

Barbara pettinava i suoi capelli chiari e sottili mentre guardava ancora una volta la foto di lei e Bill in vacanza a Los Angeles. Si rigirò la fede intorno all’anulare. Le lacrime scivolarono giù dai suoi occhi, composte, senza un sussulto.
Una trentina di persone vestite di scuro la attendevano giù nel salone, accanto a fiori e tavoli colmi di cibo.
La bara di Bill sembrava enorme, in fondo alla stanza irradiata di luce.
“Insomma, parliamo di morsi tremendi, non morsi di cani o di altre bestiacce... Io l’ho visto il cadavere di Bill, era tutto masticato... Non si poteva tenere la bara aperta, non era un bel vedere. Povero Bill... Era andato a cacciare e invece... E’ stato cacciato lui...”. Il signor Mills si raggelò quando si accorse che Barbra si trovava a pochi metri da lui: il silenzio si fece denso intorno a loro e Barbra sorrise con i suoi occhi tristi.
Poi prese fiato e disse:
“Quando Bill tornava a casa dalla battuta di caccia a mani vuote non diceva altro che «Barbra! Ho una fame!» e poi mi portava a mangiare fuori! Non era un granché come cacciatore...”. Barbra rise e tutti iniziarono a raccontare aneddoti su Bill.
Dopo il funerale Barbra rientrò a casa. Il silenzio era un abbraccio di ghiaccio sulle sue spalle. Ripensò alla voce di Bill. Salì le scale e si addormentò ancora vestita, sul cuscino umido di lacrime.
Nel dormiveglia avvertì dei rumori sommessi, come lo strascicare di piedi nel fango, un grattare di unghie. Una voce lontana, poi vicina, conosciuta.
La donna si svegliò di soprassalto nel buio: ascoltò il galoppare del suo cuore, dei colpi sulla porta d’ingresso, Barbra, Barbra, il cigolio della porta, i passi pesanti sulla moquette delle scale.
“Cara... Sono tornato... Ho una fame...”.


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FINALMENTE A CASA

Solitamente il sabato sera non torno tardissimo, o perlomeno, non tardi come molti ragazzi della mia età.
Stasera sono le due, e sto tornando a casa.
La mia auto sfreccia tra i viali alberati, sgombri dal traffico diurno, e i fari che illuminano la strada creano colori invisibili alla luce del giorno.
Abbasso il finestrino, per respirare un poco d'aria, e una ventata di freschezza investe il mio viso, facendomi chiudere gli occhi per un istante.
Li riapro.
Sono ormai in una zona periferica, agli alti palazzoni si sono sostituite costruzioni più basse, meno serrate e più graziose.
Tra non molto sarò a casa, ma la cosa non mi appaga, dal momento che è come se fosse già lunedì. Odio la domenica, perché è un giorno di attesa, in cui man mano che passano le ore ci si rende conto che manca poco all'inizio di una nuova, interminabile settimana.
Ma ora è sabato, e sto tornando a casa.
Eccomi giunto al parcheggio, dove mi fermo.
Appena sceso dall'auto mi sento pervaso da un senso di pace, complice il silenzio assordante del luogo, così decido di accendermi ancora una sigaretta.
Il fumo inonda le mie narici, ed è una sensazione piacevole come questa serata, piuttosto fresca, poiché l'autunno sta arrivando con prepotenza.
Sono di fronte al cancello, lasciato socchiuso, che varco velocemente.
Pochi passi mi separano dal meritato riposo.
Improvvisamente il pacchetto di sigarette sfugge dalla mia mano, cadendo sul marmo lucido di una tomba.
Solo mentre lo raccolgo noto che su di esso campeggia la scritta "IL FUMO UCCIDE".
Scoppio in una risata fragorosa, poi, con un gesto meccanico, spengo la sigaretta, prima di scendere i gradini e chiudere silenziosamente il sepolcro alle mie spalle.
La bara è aperta, così come l'ho lasciata.
Finalmente a casa.


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CARNEVALE

Nel cuore di una fredda notte di febbraio, fu il bagliore a far riemergere Angelo dal suo sonno agitato. Aprì gli occhi e constatò la presenza di una creatura dalle grandi ali bianche e piumose seduta in fondo al suo letto. Una luce chiara e soffusa la contornava; la creatura sorrideva.
Angelo si alzò a sedere nel letto: non pensò a un'allucinazione né ai possibili postumi della bevuta della sera precedente, quando gli amici lo avevano trascinato controvoglia a una festa in maschera e lui aveva bevuto più del dovuto per dimenticare di essere lì. Era un uomo depresso e obiettivamente sfortunato, ma conservava un minimo di ottimismo e sapeva che anche nei momenti più brutti è lecito aspettarsi, presto o tardi, un aiuto. Per questo non ebbe il minimo dubbio.
"Finalmente!" esclamò, col cuore che gli si riempiva di gioia e la voce rotta dall'emozione. "E' una vita che ti aspetto! Avevo ragione a credere in te! Anche quando tutto andava male, io sapevo che saresti arrivato, prima o poi, per proteggermi e aiutarmi nelle difficoltà! Non poteva essere un caso che io portassi questo nome! Ora che ci sei andrà tutto bene, lo so! Ma quante cose ho da raccontarti! E finalmente sei qui, sei proprio tu, sei vero, sei il mio angelo custode..."
La creatura continuava a sorridere. Era rimasta in silenzio mentre Angelo farfugliava. Quando lo interruppe, la sua voce era melodiosa. "Angelo?" chiese. "Quale angelo?" Le sue ali si scurivano progressivamente, le piume si andavano trasformando in pelle nera e squamosa, le braccia che allungava verso di lui terminavano in lunghi artigli.
Angelo urlò; fu l'ultima cosa che fece. Il demone, smesso il suo travestimento di carnevale, lo ghermì e cominciò a trascinarlo giù, verso il buio.

(Racconto per il concorso "300 Parole Per Un Incubo", 2003 - edizione 2)


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