venerdì 29 marzo 2024
Racconti Drammatici

PETTORALE NUMERO TRENTOTTO

Nell' incerto chiarore di un' alba appena annunciata, la finestra
illuminata spicca solitaria sull' intonaco screpolato.
E' domenica e la citta' riposa per la pausa settimanale.
La modesta cucina odora di latte caldo e piatti lavati.
Secchiaio in graniglia grigia da museo della civilta' metropolitana in una nicchia, cucina Rex in quella di fronte. A terra marmette di colore indefinibile. Un' intera parete e' occupata dalla credenza in rovere,
unica superstite alle vicende belliche della camera da pranzo che lui e sua moglie si erano fatti fare appena sposati.
Buffet, contro - buffet, tavolo e sei seggiole. Era cosi' che si faceva, a quei tempi. Quante cambiali, ma lei ci teneva tanto...
"Ci dureranno tutta la vita, vedi come sono solidi? - soleva dire - Cose fatte per sfidare il tempo, cosi' ne godranno anche i nostri figli!"
Di figli non ne erano arrivati. Di certo non per mancanza di impegno e chi mai poteva immaginare che anni dopo sarebbero sfollati in montagna
per evitare i bombardamenti?
Tornati in citta', avevano trovato la porta forzata e ovunque una confusione indescrivibile. In camera da pranzo era sparito tutto, escluso la credenza e una sedia. Nessuno sapeva niente, nessuno aveva potuto o
voluto dare spiegazioni.
Marta ci aveva fatto una malattia, per i suoi mobili. Aveva pianto e dopo se l' era presa con lui, che non aveva voluto spendere i soldi per un
camioncino. Meno male che le poche cose di valore, la spilla di una
zia, il servizio di piatti col righino d' oro e le lenzuola di canapa e lino,
erano sfollate a Zocca assieme a loro.

Sul tavolo di formica giallina sono rimaste le tracce della colazione.
Mettera' in ordine prima di uscire: adesso e' ora di prepararsi.
Pantaloncini ... maglietta ... calze ... pettorale col numero 38:
tutto e' pronto nel bagno fin dalla sera prima. Ogni cosa e' piegata e
sistemata sul radiatore, proprio come faceva lei, perche' fossero ben caldi la
mattina. La colazione in cucina, il pentolino per il mezzogiorno e un
bacio prima di uscire. I turni in fabbrica spesso erano scomodi ma
per quanto presto lui si alzasse, lei lo precedeva sempre, per fargli
trovare tutto pronto. Era lei a occuparsi del suo equipaggiamento in
previsione di una corsa e subito dopo a rimettere tutto in ordine. Ogni volta, con
cura amorevole riempiva le scarpette speciali di carta di giornale per
mantenerle asciutte e in forma. Stirava e rammendava maglie e
pantaloni e una volta al mese lucidava col sidol coppe e targhe e la bacheca del
medagliere.
Lui faceva finta di niente ma vedeva con quanto orgoglio e amore la
moglie svolgeva quelle incombenze.
Quando avrebbero potuto godersi entrambi la pensione, un brutto male se
l'era portata via in pochi mesi.

Il rumoroso ticchettio della pendola lo riporta alla realta', mentre
il tubo dello scarico gorgoglia, scandendo ritmi prosaici di una vita che
malgrado tutto continua.
Uno sguardo in giro, prima di chiudere. Tutto in ordine, tutto come
dev'essere. Per una vergine come lui l' ordine esteriore e' importante
per conservare quello interiore.
Giu' dal portone, un ultimo pensiero: nascondere nella siepe il mazzo
delle chiavi, cosi' avra' una cosa di meno da tenere su di se'.
Un gattone male in arnese sfreccia via da sotto i rami, mentre un
venticello freddo gli porta le note biasciate di un Vasco Rossi che,
chissa' perche', insiste nell' augurarsi una vita spericolata piena di
guai.
Sul bus che lo conduce al punto di raduno, alcuni ragazzi lo fissano
e intanto bisbigliano tra loro. Capisce che parlano di lui. Lo sguardo e'
di divertita insolenza, come se non fosse dignitoso per uno della sua eta'
indossare un abbigliamento cosi' smaccatamente agonistico.
Sono giovani - ragiona - di una generazione che troppe volte non sa ma
giudica. Giovani cui non abbiamo saputo insegnare l' umilta' e che si
ritengono sportivi solo perche' ogni domenica assistono agli sport
praticati da altri.

Il grande piazzale erboso e' gremito di appassionati e curiosi che
attendono di assistere al via. In molti casi sono i famigliari dei
partecipanti e danno loro una mano a ultimare i preparativi.
Deve soffocare sul nascere una fitta di invidia o forse e' il
ricordo-rimpianto delle tante volte in cui anche lei, Marta, aveva
fatto la stessa cosa.
Centinaia gli iscritti, nelle due categorie: professionisti e
dilettanti.
Facilissimo distinguerle. Atletici e tutti piu' o meno simili tra
loro, i primi, modellati dagli allenamenti e inguainati in attillate
combinazioni tecnologiche che fanno apparire la muscolatura come
fosse scolpita nel metallo.
Si differenziano anche perche' un nano-secondo dopo il bang sono gia'
cosi' avanti che fino al traguardo non li vedra' piu' nessuno.

Disuguali gli altri, altissimi ed emaciati oppure panciuti e con la
silhouette di una trottola, indossano equipaggiamenti raccogliticci,
precari ed improbabili.
Inutili felpe di celofan prese coi punti Esso, t-shirts pubblicitarie
dai colori accesi, orripilanti tute sintetiche dalle quali escono sbuffi di
vapore come dalle fogne di New York.
Avanzano col passo strascicato del moribondo o sulle punte come Leda
e il cigno, a balzelloni come canguri o a passetti inamidati o ancora
impettiti come tacchini o sgonfi e vuoti come parentesi tonde.
Sono pallidi o a chiazze color lambrusco, uniformemente cianotici o
dal leggiadro incarnato itterico.
Impiegati del catasto, casalinghe frustrate, erotomani conclamati che
approfittano dell' intruppata per palpeggiare le partecipanti
femmine, segretarie che cercano nuove amicizie e all' uopo sfoggiano pantaloni
attillati come camere d' aria e giubbetti rigorosamente corti a
mostrare i culetti.
Gottosi, piedidolci e asmatici, rachitici e ansiosi, flatulenti e
obesi, TUTTI partecipano, tutti convinti di trarre un beneficio anche solo
dal portare il pettorale col numero!
Rischiano l' infarto, rasentano l' ictus in nome dell' ambizione di
star meglio correndo nella Natura tre volte all' anno, torturando cosi' un
organismo avvezzo piu' allo stress da computer che a quello da viottolo
di campagna.
Salvo poi mandare giu' sorsate di coca gelata e panini sintetici al
vinil- prosciutto e pseudo- fontina.

Indescrivibile la confusione, sia in prossimita' del banco dell'
Organizzazione che nei prati circostanti, ma non ci bada piu' di
tanto.
Pensa al percorso, pensa a cio' che gli ha detto il medico sportivo,
che il tempo non passa solo per gli altri e che sarebbe bene che ogni tanto
desse un' occhiata alla carta di identita'.
Lo aveva detto scherzando perche' si conoscevano da un pezzo, ma aveva
colto un' espressione preoccupata sul quel viso sempre sorridente.
Flette a ritmo crescente gambe e braccia. Spia il sangue scorrere e
i muscoli gonfiarsi nel confortevole calore dell' esercizio. Certo,
specialmente di recente ha avvertito i segni di un cambiamento, ma
rifiuta di ammetterlo, in primis con se stesso. Un tremore nuovo alle
mani, discontinuo e piu' forte di quello arrivato coi primi capelli
grigi.
La sensazione di affanno al termine delle dieci rampe di scale, le
stesse che un tempo poteva superare d' un fiato.
"Ma e' logico - ripeteva tra se'- e' naturale, il tempo passa e non
posso pretendere di sentirmi sempre come a quarant' anni. Pero' di energia
ne ho sempre tanta e poi, con l' esperienza di mezzo secolo di corse...".
Si allena ogni giorno, estate e inverno, anche sotto la neve,
stringendo i denti e ignorando vertigini e fitte alle gambe, perche' non ha altro,
oramai, nella vita.
Non ha piu' il suo lavoro ne' i colleghi di fabbrica.
Non piu' Marta, la buona, fedele e dolce e forte Marta.
Spariti nel grigio dell' indifferenza o sotto terra i pochi lontani
parenti, ora non gli resta che la consapevolezza della sua falcata. La
sicurezza che ad ogni appoggio del piede sul terreno ne seguira'un'
altro e poi un' altro e un' altro ancora, sempre con quella cadenza,
ascoltando nelle orecchie il cuore che pompa e nei muscoli la loro forza.
Sempre
e sempre e ...

Anche ora e' cosi', quindi guarda avanti - si ripete di continuo, ad
ogni metro, ad ogni platano che gli sfila accanto, ogni volta che uno
strillo di bambino o un movimento improvviso vorrebbero distrarne l'
attenzione.
Guarda avanti e pompa. Pompa e non pensare. Il mondo e' qui, e' ora,
dentro alle tue scarpette, su questo asfalto e non devi pensare ad
altro.
Cosi', in un' infinita sequenza di uno-due, uno-due, uno-due, scorrono
i chilometri. Anche se non conosce la propria posizione, e' consapevole
che il gruppone e' lontano, dietro di lui. Non ne avverte i passi ne'
la cadenza grave e cavernosa del coro di fiati. Davanti, molto avanti,
scorge un gruppetto, ma sono pochi, forse appena tre.
I professionisti, campioni sulla cresta dell' onda, sono spariti verso
il traguardo, come gazzelle... come lui secoli prima.

Capisce che sta andando bene, meglio del previsto.
Lo vede sulle facce confuse che scorrono ai lati del percorso. Facce
che fissano sorprese il bianco dei suoi capelli.
Lo vede negl' occhi spalancati per la sorpresa.
Lo sente negli applausi che sempre piu' numerosi suscita il suo
passaggio.
A un tratto gli si para davanti un corpo. Scarta di lato per non
travolgerlo: se andasse a terra sarebbe finito, perduto.
Un lampo negli occhi, un' altro ancora e capisce che lo stanno
fotografando, maledetti incoscienti!
Supera un curvone. Lo riconosce. Sa di essere quasi a meta' del
percorso.
Sa che fra poco dovra' affrontare una lieve salita.
Uno-due, uno-due, gli occhi in avanti, la mente nei piedi che affondano
con la regolarita' di un metronomo.
Ma la salita per quanto leggera sollecita muscoli provati da tanti
chilometri.Tutto gli appare remoto, sbiadito, come l' immagine di un
obiettivo difettoso. Il tu-tum del cuore e' un boato sempre piu'
sordo, sempre piu' forte. Puo' quasi vedere il proprio viso, cianotico,
deformato dallo sforzo, i denti stretti a trattenere il fiato in
polmoni troppo grandi per un torace solo.
Sente le vene sul collo farsi ad ogni istante piu' gonfie e tese e
dure come cordoni e le tempie pulsare al suono di un' invisibile grancassa.
Vorrebbe avere tubi da stufa al posto delle narici, mantici per
polmoni, pistoni idraulici come quadricipiti.
Altri flash gli torturano la vista, saettando lungo il nervo ottico
stilettate al cervello. Confusamente si ripete che se lo fotografano
significa che sta andando bene.
I gruppi di spettatori sono per lui soltanto colori indistinti, lunghe
macchie rese mosse dal suo avanzare rapido.
Lingue di fuoco gli invadono il petto. Fuoco liquido come lava,
bruciante come quando in officina gli esplose accanto un tubo del vapore.
Un formicolare strano, ignoto, serpeggia lungo il braccio sinistro. Non
sa spiegarsi come ma gli da' sensazioni piacevoli.

All' improvviso sente uno schianto, il rovinare a terra di qualcosa di
molto pesante.
Vorrebbe girarsi, guardare, ma non osa. Ha un giramento. Teme d'
inciampare.
Non ti fermare, ragazzo, non cedere, non rallentare, non rallentare,
hai il ritmo giusto, HAI IL RITMO GIUSTO!!
Se lo dice e se lo urla dentro all' infinito, e forse non solo
dentro, perche' gli sembra di sentire un gorgoglio ansimante che potrebbe essere
suo.
Da quel momento, incredibilmente, la sofferenza si attenua, scompare
e anche il fuoco che sentiva dentro gli da' tregua.
DAI! DAI! forse e' una sconosciuta riserva di energia quella cui sta
attingendo, perche' gli pare che i piedi non tocchino piu' terra.
Ha l' impressione di sfiorare appena l' asfalto. Terminato il fiato
rovente e il senso di bruciore che un attimo prima avevano colmato
ogni cellula del suo essere, avverte dentro una nuova forza.
"Chissa', magari questa sera aggiungero' un chiodino al
medagliere...-
pensa e un sorriso incerto allenta quelle labbra che stanno serrate
da ore. - Marta sarebbe contenta, una volta di piu' orgogliosa di me!"
E' felice. Felice di una gioia primeva e limpida come acqua di
ghiacciaio. D' un lampo ricorda quando da bambino la mamma lo premiava
per un compito ben fatto.
C'e' anche piu' luce nell' aria o e' una sua impressione?. Che stia per
venire fuori il sole? La vista gli si e' schiarita e ora ci vede
perfettamente. Nel benessere strano che si sta impadronendo di lui ha
la sensazione di un lontano vibrar di campane, mentre il percorso sembra
perdersi nel biancore di quella luce.
Ma gia', e' domenica: sara' un chiesa che chiama a raccolta i fedeli.
Scorge una fila di spettatori, ancora indistinguibili nella forte
luminescenza che pare scaturire dal percorso.
Si sporgono verso di lui e battono le mani. Sono tanti e lo
incoraggiano.
Sorridono, gli occhi, e vede le bocche aprirsi e sorridere, le gole
tendersi in grida festose ma e' sempre e soltanto un vago clamor di
campane quello che avverte.
Strano, molto strano....
E' piu' vicino. Ora i contorni sono netti, distingue i particolari.
Sono uomini e donne...uomini e donne e fanno gesti.
Gli sembrano volti familiari. Uno, fra tutti, quello di una donna, un
volto dolce e forte...

ANZIANO ATLETA MUORE DURANTE UNA CORSA.
Giornaleradiotre, edizione della sera.
Questa mattina il settantatreenne Aldo Nardozzi, durante lo svolgimento
di un' importante gara a livello nazionale, e' caduto a terra fulminato
da un infarto. Non prima pero' di aver fatto sfigurare alcuni tra i piu'
forti dilettanti Italiani. Inutile ogni sforzo dei sanitari che si sono
prodigati nel tentativo di rianimazione. Il Nardozzi, pensionato di
una nota azienda meccanica e vedovo da alcuni anni, si applicava con
immutata passione all' attivita' che da giovane lo aveva visto fare suoi alcuni
dei piu' prestigiosi trofei nazionali ed europei.
Riferisce il nostro cronista, prontamente accorso sul luogo della
tragedia, che il volto dell' anziano atleta stranamente sorrideva, non mostrando
traccia alcuna dei tremendi sforzi all' origine del fatale malore.
Previsto per domani l' esame autoptico.

Calcio. Nulla hanno potuto gli sforzi della squadra granata volti a
contrastare ...


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IL SORRISO RITROVATO…

C'era un lunghissimo brusio… lui lo ascoltava come se fosse da un'altra
parte, ma quando si concentrava con la mente, con gli occhi, e con
l'anima su quel rumore, ne rimaneva attonito, impaurito. Non sapeva perché
provasse ciò, o meglio così voleva far credere agli altri. Lui cercava
in quel rumore una voce, o meglio più voci: quella di lei e quella che
avrebbe forse dovuto uccidere lei per lui. Le bramava disperatamente,
ma aveva paura di trovarle. Trovare lei sarebbe stato un'ennesima
sofferenza che lui stesso sapeva bene di non meritare, ma la voglia di un
qualcosa cui nemmeno lui sapeva dare il nome era troppo forte. Semmai
l'avesse trovata, lui l'avrebbe immaginata per quello che lei non era, per
quello che lei non era mai stata: ma lui era stato capace di cancellare
tutte le cose brutte che loro avevano fatto. E per lui erano rimasti
solo i sogni che loro, o forse meglio sarebbe lui solo, avevano fatto: di
vivere quella vita idilliaca che lui aveva sempre sognato per lei e per
lui. Quella vita che non avevano mai avuto, e che, per quanto gli
riuscisse difficile ad ammettere a se stesso, solo lui aveva bramato a
discapito della sua dignità di essere uomo. Si era annientato, si era
distrutto, era diventato uno psicopatico dell'amore più folle che non
esisteva, se non nei suoi meandri più scuri e vivi della sua annebbiata mente.
Non ragionava più, si trasformava in una belva, che mostrava la sua
rabbia con ruggiti ed unghie affilate, ma che in cuor suo versava le più
amare e disperate lacrime…
Ma non voleva nemmeno ascoltare la voce di chi avrebbe dovuto
ucciderla. Lui sentiva di non poter vivere senza di lei, di non essere più lui
se lei fosse andata via per sempre. E non riusciva a capire che quella
era forse la più saggia e giusta decisione da prendere. Ma nella sua
mente piombavano ricordi che d'impatto non gli permettevano di guardare da
nessun'altra parte, se non lì: da lei.
Nel brusio della folla cercava anche il suo volto: dio fa che non lo
trovi mai, perché solo allora avrebbe deciso di fare quello che per lui
sarebbe stato la sua più grande rovina.
Ma quel giorno venne: lui la vide, la fissò nella folla. Attorno non
c'era nulla: solo lei con il suo corpo ed il suo volto. Tornò a casa di
corsa. Poi subito uscì. Andò di nuovo in quel luogo maledetto, dove lei
sorrideva allegramente ed era così spensierata tanto da sembrare che
non tenesse in minima considerazione la tragedia che lui stava vivendo.
Ma il suo folle piacere continuava crescere e la sua rabbia si caricava
sempre di più: sparò colpendola in petto. Tutto attorno si gelò, quel
maledetto brusio era cessato. Solo allora lui ricominciò a ridere dopo
tanto tempo… il suo volto era tornato ad essere quello sereno di una
volta, quello che noi tutti conoscevamo ed amavamo…


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DAVIDE ŠKABRIJEL, 1917

Sulla strada di Monte Pasubio

È rimasta soltanto una croce

Non si sente mai più una voce

Ma solo il vento che bacia i fior.

Anonimo, 1917

Aprii la porta, e percorsi l'atrio che mi separava dal cancello. L'ambiente era pulito, sapeva di fresco, di buono. Probabilmente -pensai- gli addetti alle pulizie avevano appena smontato. Era una fortuna: così, nessuno mi avrebbe fatto domande. Non ne avevo bisogno. Non in quel momento. Passai davanti al quadro dei citofoni, mi fermai, lessi qualche nome. Mikhailov, Nemec, Kodelija, Bogunovic, Vuk. Non schiacciai nessun bottone, ma distolsi lo sguardo, e proseguii. Ecco il cancello. Attraverso i vetri opachi, filtrava, intensa e decisa, la luce di fine mattinata. Un brivido mi attraversò la schiena: quello era il lato orientale, dava verso la collina.

Oltre il cancello, c'era il prato. Ovunque un'immensa distesa verde, lucente ai raggi del sole, curata, profumata. Alla mia sinistra, un vociare sommesso: una piscina; uomini che nuotavano, altri, distesi sulle sdraio, riposavano, scambiandosi qualche parola, con gli occhi socchiusi, protesi verso la luce accecante. La bora, che spirava dal golfo, trasportava con se gli odori dolciastri delle lozioni abbronzanti, fino a me, per tutto il prato. Misurando i passi, mi incamminai lungo un viottolo lastricato. Dopo qualche centinaio di metri, superai una dozzina di persone: stavano giocando a golf; camminavano sull'erba, con le sacche in spalla. Sentii le loro voci, mi soffermai ad ascoltarle, senza comprenderle. Poi le gambe mi sospinsero via.

Il sentiero conduceva in cima ad un piccolo dosso; mi fermai lassù, appoggiai le mani ad un cartello di legno. Non calpestare l'erba- ammoniva, in slavo, e, più sotto, in piccolo, in italiano. Distrattamente, mi riportai sul lastricato. Di fronte a me, sorgeva una collina, forse la più anonima delle colline: bassa, verde, rivestita di vegetazione, qua e là cosparsa di pietraie, disabitata. Ai suoi piedi, giungevano le propaggini orientali della città. Sulla cima luccicavano gli apparecchi ripetitori della televisione. Un'antenna bianco e rossa svettava, solitaria, fin quasi a toccare il cielo. Conoscevo quella collina, la sua forma a testuggine: l'avevo vista tante volte, in fotografia, vecchie fotografie in bianco e nero. Era per lei che stavo lì. Gli abitanti di Nova Gorica la chiamavano, con un nome quasi impronunziabile, Škabrijel; quelli di Gorizia, più semplicemente, Monte San Gabriele. Oggi non è che un colle come tanti altri, un colle che si scorge distrattamente, viaggiando in macchina, attraverso il parabrezza, magari, ascoltando musica, con lo sguardo disperso lungo la striscia d'asfalto. Oggi. Ma novant'anni fa fu il più grande carnaio della Prima Guerra mondiale.

(Ricordi… E poi, c'era stata quella fotografia, vero? Quanti anni avevo? Dodici? Andavo ancora a scuola. C'era una biblioteca, vicino a casa; ricordo che ci fu un periodo che la frequentavo assiduamente, quasi ogni giorno. I libri stavano ammucchiati sugli scaffali, in disordine, anzi, nel più completo abbandono, e questo era, in fondo, il suo bello. Un giorno, trovai quel volume: era un testo di storia, o qualcosa di simile: nulla di troppo interessante, insomma. Ma, dentro, c'era questa fotografia. Ricordo che la imparai a memoria, tanto mi colpì. Un giorno, rubai il libro…)

Non calpestare l'erba- diceva il cartello.

Questi, proprio questi, dove un noioso gruppo di signori stava giocando a golf, erano i prati di Santa Caterina D'Isonzo. Contro le loro trincee si infransero gli attacchi italiani, nell'agosto del 1916. Da qui, un anno dopo, sarebbero partiti i battaglioni destinati ad essere inghiottiti nella bolgia del San Gabriele.

Lontano, dalle parti di Salcano, rintoccò a lungo il battere cupo di una campana.

(… C'era un'immensa erta pietrosa, sulla fotografia, intendo. Sullo sfondo, si distingueva un cucuzzolo nero, che solo dieci anni dopo avrei scoperto essere la terribile quota 621, ad ovest del San Gabriele. Le pietre erano bianche, il cielo nero, plumbeo. C'era del fumo, tanto fumo; a terra, elmetti, fucili, forme irriconoscibili, e poi, tanti mucchietti scuri, informi. Erano centinaia. Erano i morti. Era ciò che restava sul San Gabriele, davanti alle trincee austriache, la sera del 7 settembre 1917…)

Fu un estate calda, quella del 1917, sul fronte italiano: a maggio, la battaglia del Vodice e del Kuk, a giugno, l'Ortigara, ad agosto la Bainsizza: oltre 100000 morti. Poi venne il San Gabriele.

La notte del 2 settembre 1917, al grido di "Avanti, figli di puttana!", le fanterie italiane furono sospinte all'attacco, attraverso i pochi varchi che si erano potuti aprire nei reticolati nemici. Le trincee austriache erano immense, furono conquistate tutte, una ad una, sotto un bombardamento infernale. A sera, cadde quota 621. Poi calò la notte, mentre la terra fumava, e risuonava del pianto dei feriti. Ancora si sparava. Il 3 fu presa la Selletta, ai piedi della vetta, e il generale austriaco, comandante del presidio, si suicidò. Alla Selletta, i fanti della brigata Messina, che l'avevano appena conquistata, catturarono oltre 150 prigionieri, tutti ungheresi: li ammassarono in una caverna, dove prima c'era un nido di mitragliatrici, poi li trucidarono. Presto, cadaveri austriaci ed italiani si ammassarono gli uni sugli altri, sui reticolati, nelle trincee abbandonate. A mezzogiorno del 4, finalmente, tre lacere pattuglie della brigata Arno misero piede sulla vetta pietrosa del San Gabriele. Tutto era distrutto: ovunque solo pietre e fango, e ferro, ruggine, e i brandelli delle divise sparsi tra le rocce. Poco sotto la Selletta, sorgevano i resti di una piccola cappella, tra le siepi di filo spinato; restavano in piedi solo due muri, e c'era una scritta in latino, con la parola "PAX" cancellata dai proiettili di mitragliatrice. Nella notte tra il 2 e il 3, quella chiesetta era stata persa e riconquistata dai fanti della brigata Piceno per ben sei volte, nel giro di poche ore. Il giorno dopo, e per sempre, la sua ubicazione fu cancellata dalle cartine geografiche.

Per la prima volta, in quel pomeriggio, mi sorpresi a scrutare il cielo; vidi volteggiare sulla vallata una grande nuvola bianca; leggera. Sembrava un fiore di neve -pensai. La seguii con lo sguardo, finché non scomparve, ad est, oltre la Bainsizza, verso Lubiana. Fu allora, tutto d'un tratto, che volli salire fino in cima alla collina. Non so perché, ma sentii che dovevo farlo. Forse il vialetto conduceva proprio lì? Sì, era probabile. Doveva. Dove altro avrebbe potuto condurre, sennò? Camminai a lungo, sull'erba soleggiata; incontrai delle persone, forse le stesse che, poco prima, stavano giocando a golf; qualcuno si voltò a guardarmi, un uomo mi salutò sorridendo, come se mi conoscesse. Poi, uno alla volta, scomparvero alle mie spalle. Io continuai a camminare. Il sentiero finiva contro una rete arrugginita, che segnava il limite della proprietà. Oltre, non si poteva andare. Appoggiai le mani al ferro screpolato; di là c'era la boscaglia, il San Gabriele era lì in mezzo, da qualche parte. Ricordo che rimasi così, fermo, incerto, per un bel pezzo. Tutto sembrava finire lì. Certo, avrei potuto interpellare qualcuno, chiedere informazioni, ma a cosa sarebbe servito? Cosa mi avrebbero risposto? "Da. Certo che ci sono già stato; conosco il posto: davvero magnifico, a beautiful place, Posso accompagnarla, se vuole. Certo, ci mancherebbe. Nessun disturbo: c'è una strada che arriva fin su in cima. E poi il panorama è bellissimo da lassù." No, tutto quello che c'era da vedere era lì, oltre quella rete metallica, era tutto lì: le sterpi, gli arbusti selvatici, venuti su dal nulla, le trincee colme di ortiche, le gallerie impenetrabili, dove neanche più il vento poteva giungere, e poi, niente più.

(… Poi, col passare degli anni, quella fotografia andò perduta. Ormai, la considero parte di un'epoca conclusa della mia vita. A volte, mi sembra quasi di vederla; la vedo lì a terra, tra le ortiche, insieme a mille altri oggetti dimenticati. Vedo nuove persone, che le passano accanto, la guardano, la lasciano lì, a terra…)

Oramai, sapevo che presto me ne sarei andato: era tardi, il sole stava scomparendo dietro il Sabotino. E poi, prima o dopo, qualcuno mi avrebbe notato, e, in quel momento, non avevo voglia di parlare, e, tantomeno, di giustificare la mia presenza lì.

Gli italiani, sul San Gabriele ci rimasero solo due giorni, poi, la notte del 6, si scatenò la controffensiva del generale Boroevic. Si calcola che, in pochissime ore, oltre 45000 proiettili di medio e grosso calibro sconvolsero le posizioni italiane, a quota 621, alla Selletta, ovunque. Poi, all'alba, vennero avanti le fanterie ungheresi, con le baionette innestate. La battaglia durò tutta la giornata, ma furono in pochi quelli che tornarono a raccontare. Molti impazzirono, quel 6 settembre 1917, altri persero l'udito, i più, semplicemente, morirono. La cima del San Gabriele fu persa e poi riconquistata dagli italiani nove volte, mentre le due artiglierie sparavano a casaccio, sul mucchio dei disperati. Quando calò il sole, un migliaio di fanti della brigata Arno ancora resistevano, tra i mucchi di cadaveri dei loro compagni, completamente isolati. Poi, furono lanciati i gas asfissianti, e tutto finì, sulla montagna tornò il silenzio.

Morirono in 17000, in quei cinque giorni, sul San Gabriele, i più disintegrati dai colpi di cannone, poi tanti gasati, sepolti, gli uni sugli altri, nelle caverne, nelle trincee sconvolte. Rimasero lassù, furono inghiottiti dalla terra, scomparvero per sempre.

Negli anni Venti, fu eretto, presso quota 621, un piccolo monumento in pietra, che oggi non esiste più. All'inaugurazione erano presenti molte personalità. Sulla lapide, fu scolpita una sola parola: "Ritorneranno".

(…Magari, pensai, un giorno l'avrei ritrovata, quella fotografia. E tutto, allora, sarebbe cambiato. Entusiasmo, passione, vita. Proprio come allora. Ma l'erba era alta, ai piedi del San Gabriele.)

Alzai per l'ultima volta lo sguardo, oltre le piante, ma non si scorgeva nulla, di là, c'era solo il cielo. Poi, sentii i passi alle mie spalle. Mi voltai, e vidi due uomini. Mi salutarono con un cenno del capo. Io rimasi in silenzio. "Che fa lei qui? Chi l'ha fatta entrare? Non sa che questa è proprietà privata?"

Mi voltai, e me ne andai.


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UNA PREGHIERA TRISTE

Gli uomini in blu sostavano davanti la casa con le loro grosse mani che stringevano sotto il braccio bibbie con foderi scuri.
Due turpi monatti, uno a destra l'altro a sinistra, sollevarono il cadavere con un lenzuolo da corredo che mai sarebbe stato venerato un giorno come sindone testimone di una resurrezione.
L'angelo sterminatore era passato di lì senza vedere il sangue dipinto sugli stipiti della porta.
Con il fare arrogante di chi ha creato l'universo aveva bussato senza attendere la risposta, entrando e disponendo a piacimento del futuro di un po' di gente -troppo poca è la gente.
La vecchia zia guardava la scena da lontano.
I suoi occhi dilatati da grosse lenti si posavano sui corpi dei giovanotti con scarpe da ginnastica e giubbini di pelle scadente.
Senza muovere la mano gli accarezzò per l'ultima volta il volto non ancora completamente violato dal rigore della morte, e lo strinse al petto come faceva quando lui scappava dalle sfuriate della madre.
La madre.
Stabat iuxta crucem lacrimosa… lacrimosa dies illa…le parole che suggerisce il dolore…
Il giovane studente ripeteva dentro di sé parole a caso, con meccanica salmodia.
Ricordava inni di chiesa, pezzi del Requiem, frasi di versioni dal latino.
Le parole che suggerisce il dolore, si ripeteva ogni volta che sentiva qualche urlo disperato.
Le parole che suggerisce il dolore, si ripeteva quando sussurrava dentro di sé -scrivendole ad ampi cerchi con il dito sulla gamba- le parole della sua preghiera triste.
Sposo ritardatario, quando tu verrai, forse non ti riconosceremo e ti lasceremo andare solo alla casa delle nozze.
Le parole che suggerisce il dolore, si giustificava, e ricominciava.
Come potrai lasciarci fuori nella notte e dirci: "Non vi conosco", se non ti abbiamo incontrato - tu un tempo consolatore con cuore di uomo- all'ingres-so delle nostre città sulle nostre strade attraversate da cortei di morte, se non hai avuto compassione per le lacrime delle nostre madri e dei nostri figli?
Le parole che suggerisce il dolore.
Ora sentiva di poter vuotare il sacco, sentiva di poter rivolgere verso l'alto tenendo gli occhi fissi sulle sue scarpe -grande è il mistero della preghiera- le parole che aveva pensato di volta in volta, negli anni, i frammenti di dolore che aveva depositato nel fondo del suo animo, e che si erano uniti l'uno all'altro.
Tutto veniva a galla, ora.
Abbiamo versato l'olio della lampada sulle nostre piaghe, Signore, e sulle piaghe dei nostri fratelli, perché è scritto che tu ci curerai e ci consolerai solo alla fine. E intanto, qui soli a morire a consumarci come fiamme in una offerta votiva e blasfema.
Sentiva di avere il dovere di parlare a nome dell'umanità.
Forse per assolvere meglio al compito sentì il bisogno di guardare ancora verso la bara, che intanto i monatti si apprestavano a chiudere, mentre uno che aveva appena gettato via una sigaretta si stava avvicinando portando l'occorrente per sigillarla.
Lo studente pensò ai Sepolcri, al suo ultimo sette e mezzo, e ai parenti che rubano una scintilla al sole per racchiuderla in un'ampolla da lasciare con il defunto.
Rubò tutta la luce che poté, spalancò gli occhi per rubarne di più, si accorse che stava quasi allargando le braccia per aiutarsi nello sforzo.
Quanto in ritardo la tua consolazione, nella gravosa attesa del guardare, a sera, oltre i monti, in cerca dell'aiuto, o dell' Amato!
Aggiunse alla sua preghiera un altro pezzo.
Vide davanti agli occhi gli occhi di uomini in attesa, immaginò fronti rigate dalla fatica e dall'età levate a seguire con lo sguardo il lento degradare delle colline verso il fiume, volando sui tetti delle case e sulle cime degli alberi che si confondevano in lontananza.
Gli addetti avevano finito.
L'ultimo saluto era stato nel frattempo ripetuto già più volte, ed uno dei tanti divenne davvero l'ultimo.
La madre diede al figlio le ultime raccomandazioni prima del viaggio, come faceva ogni volta che ripartiva per l'Università o per il militare -petulanti e noiose le madri.
Il padre era stato immobile e in silenzio per tutta la mattinata.
Aveva ricordato il giorno in cui seppe che sarebbe diventato padre.
Quel giorno aveva consacrato senza conoscerne la parola il figlio al patrono del paese, ed ora pensava senza conoscerne la parola che quello fosse venuto a riscattarlo.
Lo studente lo guardò allontanarsi, restando con le mani appoggiate alle orecchie e muovendo di tanto in tanto l'asta degli occhiali; chinando il capo, senza muovere le braccia, comincio' a dare colpi ritmati alla nuca.
E intanto tutti erano usciti, ora anche le più anziane si erano già accomodate sulle sedie preparate davanti la casa, mentre lui rimase lì, nella stanza con sedie in disordine e ceri non ancora spenti, a discutere con Dio.



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Sentieri di guerra

L’auto si fermò dove terminava la strada militare e iniziava una pietraia scoscesa. Ne scesero quattro uomini; tre si guardarono all’intorno, mentre il quarto rimase con gli occhi abbassati. - Signori, siamo arrivati; da qui in avanti vedremo solo trincee, scavate a forza di mani nella roccia carsica, a volte abbastanza profonde, ma altre niente più che dei modesti avvallamenti dove era necessario restare sempre sdraiati. Vi faccio strada. - Grazie, vada pure avanti lei colonnello; io, il dottore e il mio povero fratello le verremo dietro, ma mi raccomando di procedere piano. Non alza mai gli occhi, ma chissà che con il ricordo di questi luoghi di dolore non possa rinsavire. Si incamminarono su per l’erta, lungo una traccia di sentiero che procedeva tutto a curve brevi e secche, in un paesaggio quasi lunare e totalmente arido, senza nemmeno il più piccolo filo d’erba. Arrivarono così a un rialzo di modesta altezza e dimensione, ma pianeggiante. - Ecco, vedete dove siamo ora c’era il posto di pronto soccorso, una cosa alla buona, niente più di una baracca, dove il chirurgo e i suoi assistenti prestavano le prime cure; per i feriti lievi non c’era nessun problema, perché bastava un leggero bendaggio e poi venivano rispediti in prima linea. Per gli altri le cose erano diverse: se c’erano speranze di sopravvivenza, venivano un po’ rattoppati e successivamente inviati all’ospedale vero e proprio nelle retrovie; se invece erano spacciati, venivano sistemati fuori, distesi sulla barella, insieme agli altri che attendevano la diagnosi del medico, e lì…lì morivano. - Posso immaginarmi, colonnello, le scene di dolore e di disperazione, a cui avrà forse assistito anche mio fratello. - No, signor Fabbri, per quanto si possa sforzare non potrà mai farsi un’idea esatta di quello che era e pure io che combattevo un po’ più in là non ho potuto provare l’angoscia della disperazione nell’attesa del verdetto come quando mi ci sono ritrovato con il mio braccio sinistro maciullato, con il sangue che usciva a fiotti dalla ferita e si mischiava a quello degli altri che erano distesi vicino a me. In quei momenti si è fortunati se si è in stato di incoscienza, altrimenti, in mezzo ai pensieri più cupi, si avverte chiaro il gelido respiro della morte, un soffio lieve, ma costante, che passa su quei poveri diavoli per fermarsi sui prescelti. - Mi vengono i brividi a sentirla dire queste cose e non vorrei mai essere venuto se non fosse per quel tentativo che il Dr. Marra vuol fare per far tornare in sé mio fratello. A proposito, dottore, lei che è esperto e che conosce già il problema per averlo in cura da tanto tempo, si è accorto se ha avuto qualche reazione? Il Dr. Marra, luminare di psichiatria dell’Università di Padova, un uomo che aveva evitato la tragedia della guerra perché avanti con gli anni, si limitò a scuotere la testa. - Andiamo avanti, verso le trincee vere e proprie che disteranno non più di una cinquantina di metri, subito dietro quello sperone roccioso. Ripresero il cammino e in effetti, dopo nemmeno una decina di minuti, arrivarono a superare il costone di roccia e lì si aprì alla vista uno scenario apocalittico. La guerra era finita da appena un anno e tutto era rimasto come prima, con l’unica differenza che non c’erano soldati, ma i reticolati, in più punti divelti, i cavalli di frisia più avanti se ne stavano ancora là, come un sinistro arredo a dimostrare che i solchi nel terreno erano stati l’opera di centinaia di uomini, che le voragini che si aprivano ovunque erano il risultato dell’impatto dei proiettili d’artiglieria, che le migliaia di bossoli sparsi ovunque costituivano la prova degli altrettanti colpi sparati. - Queste sono le nostre trincee, poi c’è un tratto semipianeggiante di un centinaio di metri e in fondo ci sono quelle del nemico, talmente vicine dal poter udire a volte il parlottare dei soldati austriaci, ma talmente lontane da raggiungere quando si andava all’attacco che si aveva l’impressione di correre fino in capo al mondo. Il colonnello si fermò un attimo, guardò meglio il paesaggio come a farsi tornare in mente quel che una volta c’era e ora non esisteva più, poi riprese " Proprio alla vostra destra c’era la compagnia mitragliatrici. Ricorderò sempre quella notte del settembre del 1917 quando fu spazzata via in un sol colpo da un proiettile di bombarda: uno solo, senza nessun preavviso, e quelli che stavano là non si risvegliarono più e nemmeno riuscimmo a trovarli. Erano come svaniti nel nulla, scavammo, ma senza risultato: di cinquanta uomini l’unico segno che rimase fu uno scarpone insanguinato. Per ironia della sorte ci fu un superstite, che si era da poco allontanato per raggiungermi al comando, ma che fu ugualmente investito dallo spostamento d’aria, sbattuto di qua e di là, ma senza danni apparentemente gravi: il tenente Mario Fabbri. Si fermò e guardò l’uomo dagli occhi bassi " Sì, sei stato l’unico superstite, ma da allora non sei più stato tu. Ricordi, Mario? Non rispose, sempre chiuso in se stesso, ma si poté scorgere chiaramente un battito di ciglia, come se all’improvviso qualche cosa fosse apparso nella sua mente, per poi scomparire pressoché immediatamente. - Del problema se ne sono subito accorti i medici dell’ospedale militare che l’hanno mandato per le cure del caso alla clinica di Padova, dove appunto lei Dr. Marra l’ha preso in consegna. Non ci sono stati cambiamenti nel suo stato? - No, mai. Sempre apatico, insensibile al suono delle voci, alle carezze di una mano amica. Il colonnello si riavviò e, sempre seguito dagli altri, superò la trincea e cominciò a procedere in quella che, in gergo militare, viene chiamata la terra di nessuno. - La chiamano la terra di nessuno, ma non è così: è la terra dei tanti che l’hanno calpestata, che, dall’una e dall’altra parte, hanno cercato di farla propria, dissodandola con i proiettili di cannone, bagnandola con il loro sangue, seminandola con i loro corpi. Si gridava “Avanti, Savoia!” e si correva come impazziti, con l’angoscia che ormai aveva vinto ogni umana resistenza e con l’unico scopo di vincere la morte. Qua e là, in questa terra martoriata, affioravano putridi i corpi dei caduti, mani scheletriche uscivano dal suolo quasi a volerci ghermire. - Mi meraviglio di sentire un militare del suo grado parlare in questo modo e con questi toni. - Ha ragione, signor Fabbri, perché un soldato di professione deve essere abituato alla guerra e alla morte, ma sotto la divisa c’è sempre un essere umano, con le sue contraddizioni, con le speranze, con le paure, che lo differenziano dalla bestia. All’improvviso si udì la voce del Dr. Marra " Fermatevi! Mario si è chinato e ha trovato qualche cosa. Il fratello e il colonnello corsero subito: Mario era in ginocchio, stringeva nella mano qualche cosa e singhiozzava. - Buon segno - disse il Dr. Marra " Vediamo che cosa ha trovato. Gli prese la mano e con non poca fatica riuscì ad aprirla, scoprendo una targhetta metallica arrugginita, ma non tanto da non poter leggere quello che vi era impresso: Albert Kaufmann 01256344. Il colonnello spiegò il significato di quell’oggetto: - E’ una piastrina militare di un soldato austriaco; serve a identificare meglio la vittima. Mario rinserrò il pugno e si asciugò il volto con il bordo della manica, si alzò e sempre a occhi bassi, senza profferir parola, si avviò lunga il percorso donde erano venuti. Superò la trincea, il posto di pronto soccorso, arrivò all’auto e vi salì. Gli altri, mentre lo seguivano, si interrogavano sul suo comportamento. Il fratello, in particolare, chiese al Dr. Marra se c’era stato l’auspicato ritorno della coscienza. - E’ troppo presto per dirlo, ma nutro dei dubbi. Almeno avesse parlato, avesse spiegato l’importanza per lui di quella piastrina, si fosse messo a cercare… E invece si è girato ed è quasi corso all’auto. Signor Fabbri, temo che Mario non ritornerà più in sé. Il colonnello decise di intervenire " Io non mi intendo di queste cose, ma penso che il nostro disgraziato amico abbia ormai lasciato qui da tempo il suo cuore e la sua mente e che quell’oggetto di uno sconosciuto, ma che ha combattuto dove c’era anche lui, rappresenti il legame materiale con questo luogo. Posso sbagliarmi, ma invece è un inizio, è la prova tangibile del ritrovamento della memoria. Certo che lei dottore dovrà lavorare molto e, soprattutto, dovrà esser per lui ciò che da quella notte gli è mancato: la fiducia nel futuro. - Può essere, colonnello, e se sarà così faremo il possibile per farlo tornare a vivere, lavorando sulla sua memoria e facendogli accettare una realtà che è già passata, un brutto sogno da cui dovremo risvegliarlo. Arrivarono all’auto e vi salirono, il signor Fabbri e il colonnello davanti, il Dr. Marra dietro accanto a Mario. L’auto ripartì, sobbalzando sull’acciottolato, in una nube di polvere impalpabile. Mario, sempre stringendo la piastrina, appoggiò il capo sulla spalla del medico e singhiozzando mormorò " Mai più guerre.

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