giovedì 28 marzo 2024
Racconti di Leggende

La leggenda del mezzosangue e della fata sdentata

Mille e mille minuti fa, da una volpe maschio e una cagna da pastore, nacque un cucciolo dal mantello tigrato nero e rossiccio, il pelo corto, ispido e setoloso, il muso appuntito e le zanne ben presto lunghe e affilate. Il mezzosangue era brutto e sgraziato nelle forme del corpo, ma dietro nodi, bozzi ed angoli della sua strana struttura fisica vi era una muscolatura che lo rendeva velocissimo nella corsa, così come capace di immobilità assoluta, per ore e ore, nella più scomoda delle posizioni. Il piglio aggressivo che ben presto cominciò ad esibire, insieme alla sua bruttezza, fece sì che nessuno degli amici del pastore lo volle mai in dono, per cui rimase a lungo nella cascina dove era nato.

Qui imparò a rubare le galline del suo padrone senza che nessun indizio potesse portare a lui. Se non erano le galline che spontaneamente si allontanavano a sufficienza dal casolare, il mezzosangue si riempiva la bocca dal sacco del grano e tracciava una pista di chicchi dal pollaio fino ad un luogo lontano e nascosto: qui attendeva la sua vittima, che sgozzava e mangiava senza ingoiare neanche una piuma che sarebbe rimasta nei suoi escrementi e lo avrebbe accusato. Non avevano sorte migliore gli agnellini partoriti nei pascoli distanti o quelli sotto le rocce più alte o impervie, né avevano scampo i piccoli porcellini nati da poco, anche se la loro madre tentava di difenderli con tutte le sue forze. L’istinto che gli veniva dal sangue di suo padre sembrava fosse del tutto incontrollabile.

Se poi il pastore, suo padrone, decideva di legarlo egli gonfiava il collo a dismisura in modo da potersi poi sfilare la catena con qualche contorsione. Questo lo fanno molti cani: ma nessun cane impara, come imparò lui, a infilarsi di nuovo nel collare e a fingere di essere sempre stato legato dopo aver commesso tutti i misfatti possibili.

Il suo padrone in verità qualche sospetto su quel figlio di volpe cominciò ad averlo abbastanza presto, specie dopo che, per arginare i furti ormai troppo frequenti, si fece dare in prestito due cani lupo addestrati alla guardia di ogni tipo di bestiame. Mentre i due lupi erano nella cascina passò poco tempo prima che i furti triplicassero di volume e ben presto il pastore si accorse che qualche predatore corrompeva i due lupi dividendo con loro il bottino di agnelli, porcelli e galline. I due cani, poco furbi, si erano fatti sorprendere sporchi del sangue e del pelo delle vittime. Il pastore restituì i due cattivi tutori dell’ordine al loro padrone e cominciò a spiare il comportamento del mezzosangue, ormai convinto che il birbante fosse lui.

Gli ci vollero tre settimane di appostamenti, perché il figlio della volpe non era stupido, ma alla fine lo vide sfilarsi la catena e allontanarsi per tornare poco dopo con la pancia piena e il muso pronto a infilarsi nuovamente nel collare. Verificato che mancava l’ennesima gallina, l’uomo andò su tutte le furie. Entrò in casa ed armò il fucile per uccidere il mezzosangue traditore che tante perdite gli aveva procurato. Gli voleva bene, in realtà, ma il danno e la beffa erano stati troppo grandi e grande era la sua rabbia. Puntò da lontano il fucile e sparò all’animale che rimase stecchito vicino alla sua cuccia. Poi, addolorato e credendolo morto, il pastore andò via per non vedere quello che aveva fatto.

Il mezzosangue stecchito attese qualche minuto immobile, poi, dopo aver ben controllato di essere al sicuro, corse velocissimo verso il varco nella recinzione che portava al fiume e al mulino e, quando giunse su quelle sponde fresche e ombrose, si sedette a pensare come poteva continuare a vivere. Sapeva bene che la pacchia era finita con quello sparo. Mezzo cane e mezzo volpe: nessuno lo avrebbe adottato. Fine perciò delle galline comode. Fine della vita da cane. Adesso cominciava la sua nuova, più difficile, esistenza: quella da volpe.

Mentre percorreva con la mente tutti i metodi che conosceva per affrontare un pollaio, una porcilaia o una stalla di pecore sentì un rumore di passi strascicati alle sue spalle. Attese, pronto alla fuga, fino a che vide avvicinarsi a lui una vecchina vestita buffamente: pareva indossasse la divisa da sergente dei paracadutisti, la cosiddetta tuta mimetica. Aveva delle buste di plastica ricolme in entrambe le mani ed era evidente che anche le tasche della mimetica erano piene dei più disparati oggetti.

La vecchina si sedette sull’erba accanto al mezzosangue, estrasse dagli ampi pantaloni una bottiglia da tre quarti di vino bianco, bevve una lunga sorsata, poi disse: "Ho qualcosa per te". Il mezzosangue si aspettava qualche bocconcino prelibato: non lo avrebbe rifiutato anche se ancora stava digerendo l’ultima gallina rubata al suo padrone. Invece la vecchia tirò fuori una pallina multicolore della dimensione di un uovo di tacchino. "Valla a prendere!" esclamò ridendo e la lanciò in mezzo al fiume. Il mezzosangue guardò la vecchietta con aria interdetta, mentre già la corrente portava via la pallina. "Su, prendila, prendila!" gridò di nuovo lei "O hai paura di bagnarti?". Il mezzosangue fece un segno come di assenso: in verità non aveva nessuna paura di bagnarsi, ma farlo per prendere una pallina gli sembrava davvero scemo e, comunque, poco decoroso.

"Ma tu non giochi mai?" gli chiese la vecchina, che aveva ben compreso il suo pensiero.

Il mezzosangue pensò "Questa vecchia è proprio stupida o ubriaca se crede che una mezza volpe possa rispondere alle sue domande" poi, comunque, guaì come per dire di no. In effetti non aveva mai giocato. Nessun bambino della fattoria lo aveva trovato simpatico, con quella sua aria irsuta e stortagnona: nessuno gli aveva mai lanciato una palla o un bastoncino. Ma lui non aveva mai neanche pensato potesse piacergli di andare avanti e indietro con un legnetto tra i denti.

La vecchia fece come se avesse inteso tutto il suo ragionare e disse "Vedrai, ti insegnerò a giocare e scoprirai di certo che ti piacerà".

Il mezzosangue emise un brontolio di dubbio, ma lasciò che la vecchia si avvicinasse e lo accarezzasse sulla testa dal pelo pungente, mentre lui abbassava le piccole orecchie appuntite in segno di approvazione.

"Beh! Procurerò un’altra palla colorata per te. Sai, non mi piacciono i legnetti: a volte le loro schegge feriscono la bocca dei cani che giocano. Va bene, fingerò che tu abbia giocato con me e mi abbia fatto divertire: ti darò comunque un premio" così dicendo estrasse da una delle sue tante buste un piccolo involucro di carta rosata: da esso venne fuori un babà al rhum che lei offrì al mezzosangue. Questi assaggiò con circospezione. Non era affatto convinto che fosse buono da mangiare. Starnutì per il liquore che conteneva, mordicchiò ancora dubbioso, poi si decise a masticare, soddisfatto di quel bocconcino che incontrava per la prima volta.

"Potrei adottare questa vecchina" pensò il mezzosangue "purché non pretenda troppe corsettine dietro a palle colorate. Il suo cibo è saporito e lei mi è simpatica".

"Io ci sto" disse la vecchina, come se avesse compreso al volo i pensieri del mezzosangue "e d’ora in poi ti chiamerò Fuffi".

Il ringhio che accolse la proposta di quel nome convinse la vecchina che in effetti Fuffi era un po’ troppo lezioso per quella massa di muscoli rigonfi e di lunghe setole da cinghiale. "Ci penserò un po’ su" aggiunse allora, guadagnandosi un guaito accondiscendente.

E i due si avviarono per il viottolo lungo il fiume, camminando uno accanto all’altra con lei che parlava e parlava e lui che ogni tanto borbottava qualcosa di incomprensibile per farle credere che la stesse ascoltando.

Quando incontravano qualche muretto o pietrone, rami o canne piegate, il mezzosangue si divertiva a saltarli a piedi uniti come un cavallo da concorso. Aveva appena saltato il tronco di un vecchio tamerice cresciuto parallelo al suolo che la vecchina gridò "Bucefalo! Se sei d’accordo ti chiamerò Bucefalo, come il cavallo di Alessandro Magno. Salti come un destriero".

Il mezzosangue finse di farla cadere dall’alto guaendo un consenso appena percettibile, ma dentro di sé era contentissimo di cambiare con quel bel "Bucefalo" il nome che gli aveva dato il suo primo padrone: un misero "Bobi", di cui si era sempre vergognato come un cane. Bucefalo era quasi un nome da diavolo e il mezzosangue trovava che si accordasse benissimo con la sua coda rossa striata di nero, che sembrava un vero tizzone d’inferno.

Riprese a saltare ostacoli fino a stancarsi, poi si affiancò alla vecchina camminandole a fianco e battendo col suo codone gonfio sulle sue gambette secche fasciate dalla tuta mimetica. Lei continuava a parlargli come fosse un bambino cui si racconta una favola; lui borbottava, meravigliato di capire tante delle cose che la vecchina gli diceva.

Poi fece una prova: "E tu come ti chiami?" abbaiò in un attimo in cui lei si era interrotta. Voleva vedere se anche lei era capace di capire il suo linguaggio.

"Meriola, mi chiamo Meriola ed ero una fata fino a novanta anni fa, poi mi hanno licenziato" disse la vecchina.

"Come sarebbe ‘fata’?" abbaiò, fermandosi, Bucefalo.

"Fata come la fata Turchina di Pinocchio o la fata Damabiah, fonte della saggezza, fata come le streghe, i maghi, gli elfi, i folletti o gli gnomi, insomma: tutti i personaggi a cui credono i bambini e i semplici di cuore" affermò Meriola con una certa solennità.

"Peccato che io sia molto scettico in queste faccende, direi quasi ateo, e non creda per nulla a scemenze del genere magico!" sfuggì detto a Bucefalo, in un latrato irridente, ma subito si pentì di aver, forse, offeso la vecchina.

"Oh, non fa niente se non credi. Quello che conta veramente è se rispetti la legge della bontà, non se dici di credere o di non credere" rispose Meriola "Peccato però, se non credi non posso fare magie per te".

"Come sarebbe a dire magie?" chiese interessato Bucefalo.

"Per esempio se hai fame io potrei trasformare quel sasso in un porcello. Però se non ci credi resterà duro e coriaceo come una pietra. Se invece credi potrebbe essere arrostito, ben condito e croccante" esemplificò la fata.

"Beh! E’ facile, facciamo la prova! Però arrosto preferisco l’agnello" esagerò Bucefalo.

"Eccotelo!" si limitò a dire la fata Meriola, trasformando in agnello arrosto il primo sasso disponibile.

"Io mangio con fede" disse Bucefalo ridendo ed addentando la carne succulenta.

Accidenti! Era davvero agnello arrosto, senza alcun dubbio: la vecchina era davvero una fata.

"Non può essere vero!" esclamò Bucefalo preso da un ripensamento "le fate non esistono". E mentre masticava l’agnello si trasformò in sasso sotto le sue zanne. Un canino si ruppe. Il dolore era fortissimo.

"Se avrai fede in me ti aggiusterò anche il dente!" disse Meriola, mentre Bucefalo guaiva per il dolore.

"Prometto! Avrò fede, ma rimettimi a posto il dente" pregò il mezzosangue.

"Fatto! E continua pure a mangiare il tuo agnello tenerello" disse fata Meriola "Ma attento a quel che dici".

"Starò zitto, d’ora in poi, specie all’ora di pranzo e durante la digestione" fece Bucefalo, che non voleva rinunciare del tutto al libero pensiero.

Ripresero il cammino ed arrivarono alla città dove viveva Meriola, che disse subito a Bucefalo: "Se ti va potrai abitare con me in piazza della stazione, proprio di fronte ai giardinetti".

"Un posto vale l’altro" disse Bucefalo, mentre una torma di cani e gatti randagi si faceva attorno alla vecchina abbaiando, saltellando, miagolando e piroettando in mille modi. "Ma questi chi accidenti sono?" proseguì Bucefalo che si era interrotto per l’improvviso caos.

"Sono in tuoi fratelli" fece angelica la vecchina.

"Io sono figlio unico" ribatté il mezzosangue "e intendo rimanere tale".

"Non fare l’egocentrico individualista adesso. Che dici se li chiamiamo cugini o anche solo amici, ma gli vogliamo bene come se fossero fratelli?" quasi lo pregò la fata Meriola.

"Mi sa che sei un po’ fissata con la bontà e il voler bene" fece invece Bucefalo "Io non amo nessuno, né sento il bisogno di essere amato. Mi basta avere la pancia piena e un posto fresco, all’ombra, dove farmi una dormitina dopopranzo".

"Sei proprio un duro!" rise la vecchina "Non giochi a palla, rubi le galline al tuo padrone e non ami nessuno. Sì, un vero senza cuore! E per di più miscredente. Cosa mai potrò fare di te?".

"Ad esempio potresti esonerarmi definitivamente dal gioco con la pallina trasformandola in un tacchino in umido. In cambio, se proprio vuoi, potrei camminare sulle zampe posteriori e fare la trottola sulla coda" disse Bucefalo con un sorrisetto malandrino.

Rise anche Meriola e, rivolta alla torma di cani e gatti suoi amici, gridò "Cena!". Ciascuno degli animali raccolse chi un sassetto, chi un ramo, chi una cartaccia abbandonata. Tutti si misero in fila davanti alla vecchina col proprio oggetto fra i denti. Poi, con ordine e disciplina, ognuno posò l’oggetto davanti a lei che lo toccava con una forcellina di ciliegio trasformandolo in qualche leccornia, a seconda delle preferenze di ciascuno.

Quando fu il turno di Bucefalo, lui arrivò trascinando coi denti un enorme sacco di spazzatura che qualcuno aveva appoggiato ad un cassonetto lì vicino. Si fermò davanti alla vecchia e disse "Me ne faresti una coscia di vitello con patate?".

"Tu di magia non sai proprio niente. Non c’è bisogno che mi porti un sacco da venti chili se vuoi venti chili di vitello con patate. Mi basterebbe uno stecchino o una foglia. La magia non va a peso" lo prese in giro la fata.

"Va bene, va bene! Ora lo so" ribattè Bucefalo "però ora trasformami questo sacchetto, o mi toccherà riportarlo indietro fino al cassonetto".

"Pigro, ma ecologico e beneducato" sorrise la vecchia "eccoti il tuo vitello con patate. Dimmi se è giusto di sale".

"Ottimo. Ottimo. Va proprio benone" mugolò il mezzosangue a bocca piena.

La vecchina sedeva felice in mezzo alle sue bestiole. Dall’ampia tasca della mimetica estrasse un pezzo di pane secco e la solita bottiglia di vino bianco. Con un coltellino tagliava delle piccole scaglie di pane che ammorbidiva nella sua bocca sdentata con un bel sorso di vino.

"Perché non mangi pollo o coniglio, come noi, invece di pane secco? Potrei darti anche un pezzo del mio vitello" chiese Bucefalo, stupito del cibo povero di cui si nutriva la fata.

"Lo capirai presto" disse la vecchia fata "ho quasi finito il vino e tra poco dovrò procurarmi il denaro per comprare una nuova bottiglia".

"Perché comprare? Riempi la bottiglia di acqua e trasformala in vino" disse Bucefalo.

"Un’altra cosa che non sai è che le fate non possono fare magie a proprio vantaggio. Il pane e il vino per me devo comprarli" gli rispose Meriola.

"Hai i soldi?" chiese ancora Bucefalo.

"Non li ho, adesso, ma tra poco li avrò. Vedrai a cosa servono gli amici" disse Meriola senza chiarire meglio.

Appena la bottiglia della fata fu vuota le sue bestiole, senza aver ricevuto nessun ordine, si disposero in fila. Prima tre gatte con dodici gattini attaccati alle loro costole, poi due bassotti con la pancia che strisciava per terra, poi ancora, da solo, un cane lupo che sapeva camminare sulle zampe di davanti, poi tre setter irlandesi che sembravano gemelli, ciascuno con un colombo bianco posato sulla testa, infine un dobermann che si fingeva invalido e trascinava il sedere per terra. Dietro alla banda veniva la vecchina con Bucefalo che un po’ si vergognava di quella parata.

Entrarono in stazione come un drappello di soldati. La gente sorrideva a vedere quello strano corteo. Le tre gatte si arrampicarono sui pali della pensilina facendo acrobazie ardite mentre i loro piccoli creavano una piramide di gattini pronti a sorreggerle se fossero cadute. I bassotti finsero una zuffa così ridicola, avvinghiandosi coi lunghi corpi panciuti, che nessuno in stazione seppe trattenersi dal ridere a crepapelle mentre quelle due comiche salsicce digrignavano i denti come ghepardi della foresta. Il cane lupo si esibì in una decina di piroette su una sola delle zampe davanti, strappando l’applauso anche al serissimo capostazione. I tre elegantissimi setter e i loro colombi mostrarono una serie figure di danza esotica che rapirono lo sguardo di tutti. Il dobermann voleva cavarsela strisciando in terra il sedere e continuando a fare l’invalido, ma quando la fata lo richiamò, riprese tutta la sua salute, afferrando al volo, come il portiere della nazionale di calcio, qualunque oggetto gli venisse lanciato dal pubblico, ormai in visibilio per quel circo estemporaneo.

Tutti vollero gettare una moneta nel cappelluccio che uno dei bassotti portava in giro. Poi la banda prese la via dell’uscita in mezzo agli applausi dei passeggeri che si erano un po’ distratti con loro dall’attesa dei treni.

La vecchina contò il denaro. Si avvicinò al vecchio Samuele, il povero che stazionava presso l’ingresso della stazione, e gli diede tutto quanto aveva raccolto in più del necessario per l’acquisto di un pane e una bottiglia di vino bianco. Poi si allontanò seguita dal suo circo festante.

Bucefalo le camminava accanto quando disse "E io cosa posso fare nello spettacolo?".

"Quello che sai fare meglio" gli rispose lei.

"Beh! Quello che so fare meglio è rubare galline" rise pronto Bucefalo.

"Mi sembra un’ottima idea" sorrise di rimando la fata Meriola "prepareremo un numero di furto. Galline non ne abbiamo, ma potremmo usare le tre colombe dei setter. Sempre furto di pennuti sarà!".

E fu così che una nuova attrazione si unì al circo della fata Meriola. Bucefalo si sfilava abilmente dal guinzaglio con cui la fata lo legava ad una panchina e, da un sacchetto, prendeva una boccata di grano lasciando una lunga scia di chicchi come faceva davvero nella sua fattoria; si appostava poi, con la bocca aperta in fondo alla traccia di grano, sino a che un colombo, fingendo di mangiare distratto, finiva tutto intero dentro le sue fauci allargate. Bucefalo allora chiudeva la bocca e fingeva di deglutire. I bambini tra il pubblico gridavano spaventati. Questo punto lui riapriva la bocca e il colombo volava fuori e si posava sulla coda dritta del mezzosangue , che andava infine a rimettersi da solo il collare.

A questo primo numero ne furono aggiunti altri, tutti tratti dalla molteplice esperienza ladresca del mezzosangue, che era felice di fare la sua parte per ricompensare la fata Meriola della sua bontà.

Bucefalo divenne il protettore inseparabile della vecchina, che imparò ad amare come tutti gli altri animali della banda anche se era un duro, perché nessuno sa resistere alla magia dell’affetto offerto senza secondi fini. A volte, nel loro continuo girovagare per la città e dintorni, se qualche ragazzaccio che non conosceva Meriola cercava di prenderla in giro o la offendeva chiamandola "vecchia befana", l’intervento di Bucefalo era immediato. Digrignando i denti e ringhiando, gonfiava il pelo della schiena e della coda fino a spaventare a morte il malcapitato. Però Meriola gli aveva vietato di aggredire o mordere chiunque e lui aveva sempre obbedito a quell’ordine.

Bucefalo e gli altri cani e gatti della combriccola dormivano a turno con lei in una delle due cabine del telefono dei giardinetti della stazione. Nell’altra dormiva Zio Antonio, che le malelingue dicevano fosse il fidanzato di Meriola, ma questo non poteva essere vero perché lui non era un mago e non faceva magie.

Una domenica sera di dicembre Meriola e Bucefalo erano seduti su un gradino vicino al cassonetto dell’immondizia dei loro giardinetti. Un gruppo di sei o sette giovani, ubriachi, si avvicinò loro e cominciò a prendere in giro la vecchina e il cane dicendo "Guarda guarda! Due sacchetti di rifiuti fuori dal cassonetto, rimettiamoli dentro".

La fata sorrise a quei ragazzi dicendo loro "Via, non siate stupidi. Non vi stiamo facendo niente. Lasciateci stare".

"Stupido a me non lo dici!" fece il più grosso avvicinandosi a lei col pugno proteso. Bucefalo si rizzò minacciando con un sordo brontolio. Il giovanotto fece un salto indietro per la paura. Ora i suoi amici lo prendevano in giro. "Vigliacco, te la fai sotto per un cagnetto", "Non avrai il coraggio di toccarla!".

"Io non me la faccio sotto per nessuno!" urlò l’energumeno afferrando per la vita la fata e sollevandola in alto sulla sua testa perché Meriola era leggerissima. Pesava forse trentasei chili. Il teppista aprì poi col piede il cassonetto e stava per scaraventare dentro la poveretta quando si ritrovò Bucefalo attaccato al collo con le sue zanne poderose. Lasciò immediatamente la vecchina, che cadde malamente sul marciapiede, ferendosi al volto e alle mani. Poi cercò di liberarsi di Bucefalo, che però non mollava la presa alla gola, qualunque cosa facessero gli amici del bellimbusto per liberarlo. Cercarono di soffocarlo stringendogli il collo con una cintura, di aprirgli le mascelle con un tubo di ferro, di staccarlo infine a pugni e calci dal corpo dell’amico: non vi fu niente da fare.

Bucefalo era accecato dall’odio. Le sue mascelle continuarono a stringersi a quando i canini lacerarono la carotide del malcapitato inondando la sua gola di sangue. Non mollò neanche allora la presa. Finché si udì uno sparo. Un carabiniere di passaggio tentava così di salvare la vittima umana. Bucefalo, colpito alla testa, stramazzò sul corpo del giovane già mezzo dissanguato che poco dopo morì senza che nulla si potesse fare per aiutarlo.

La vecchina venne rinchiusa in un ospizio con l’ordine di stretta sorveglianza perché i suoi animali erano pericolosi. Lei non poteva vivere senza di loro, e ora che Bucefalo era morto la sua vita le sembrava completamente inutile. Dopo qualche tempo non sopportava più gli altri vecchietti sempre pronti a parlare solo dei loro acciacchi, trovava noiosissima la TV sempre accesa in tutte le stanze e, soprattutto, le mancava molto il vino bianco che il medico dell’ospizio le aveva assolutamente vietato di bere.

Fu così che la fata Meriola decise di fare una magia per sé stessa, anche se è vietato dalle regole: ma una volta ogni tanto si può. Andò così in mezzo al corridoio principale e si trasformò in una monetina da cinquanta centesimi.

Michele, l’inserviente, la raccolse e se la mise in tasca. Smontato alle sei del mattino dal suo turno entrò in un bar per ordinare un cappuccino, ma dalla sua bocca uscì inaspettatamente un "Dammi un vinello bianco", che egli bevve di gusto.

Fu così che, immancabilmente, tutti quelli che si ritrovavano da allora in poi nella tasca la monetina Meriola sentivano una gran voglia di un bicchierino di vino, a qualunque ora del giorno. Passando come monetina di tasca in tasca, la fata Meriola indusse sempre più gente in tentazione e così, ben presto, bere un bianchino divenne in città un’usanza generale ed è con questa leggenda che si spiega come mai tanti miei concittadini (ed io stesso) beviamo Vermentino o Torbato nelle ore più impensate.


La fata Meriola e i suoi cani, in realtà, sono esistiti davvero. Lei si chiamava Zia Peppina ed era una clochard minuscola, piccola come una bambina di dieci o dodici anni, innamoratissima della sua libertà. Nessun ospizio cittadino era riuscito a tenerla rinchiusa fra le sue mura: alla prima occasione lei fuggiva e tornava nel quartiere della stazione ferroviaria per riunirsi ai suoi adorati cani e a Zio Antonio, il suo "fidanzato", col quale divideva i piatti di pastasciutta che sempre gli amici le davano. Non costa niente mettere due etti di pasta in più nella pentola.

Gli abitanti della zona la agghindavano a turno con vecchi vestiti variopinti e altri stracci multicolori: oggi era una fata, domani Cappuccetto Rosso o Peter Pan, un giorno vestita da sposa, un giorno truccata da puttana. La sua passione costante erano le collane che la seguivano in ogni abbigliamento avesse e che col tempo diventavano sempre più numerose al suo collo sottile e aggrinzito. Lei era comunque molto orgogliosa dei tanti complimenti che tutti i passanti le facevano per il suo guardaroba.

Se la incontravi alle sei del mattino al bar della stazione e le offrivi la colazione ordinava immancabilmente un anice ma, se glielo rifiutavi e insistevi, finiva per accettare di mangiare una pasta e bere un cappuccino.

Dormiva davvero in una cabina del telefono dove, piccola come era, stava comodissima tra le buste di plastica ricolme di misteriosi tesori e qualche privilegiato fra i suoi cani che otteneva di dormirle accanto.

Quando morì, tutto il quartiere si tassò per farle un funerale degno dell’amore che avevano per lei. Parteciparono centinaia di persone e persino il sindaco, che però dovette mettersi anche lui dietro il codazzo di cani festanti che seguivano il carro funebre. Qualcuno infatti aveva legato con delle cordicelle le palline colorate di Zia Peppina alla macchina che portava la sua bara. Così lei fece il suo ultimo tragitto rallegrando ancora una volta i suoi amici a quattro zampe e tutti quelli che assistettero al più ameno e chiassoso funerale nella storia delle fate di questa città.


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I FOLLETTI

Nella sua routine di promotore di prodotti fertilizzanti per giardinaggio, Carlo arriva a Rinascimento, un paese dell'interno, che non presentava nessuna particolarità speciale comparato coi restanti posti che aveva visitato da quando cominciò questa attività. Dei quattro hotel che esistevano nella strada principale si sistemò in quello che si adattava di più al presupposto di spese che gli riconosceva la ditta per la quale lavorava. Come era sua abitudine, prima di cominciare col lavoro giornaliero, prese una piantina del posto e tracciò l'itinerario che avrebbe percorso alla ricerca dei negozi che vendevano prodotti del ramo. Erano le cinque del pomeriggio e aveva visitato la metà dei locali scelti. Non gli era risultato facile convincere i suoi possibili clienti della bontà e convenienza del fertilizzante che garantiva la crescita rapida e sicura delle piante più esotiche e di difficile adattamento, in una terra poco produttiva. Siccome la stanchezza di tutta la giornata, sommato all'effetto del viaggio, cominciava ad evidenziarsi nel suo rendimento, decise di sospendere il percorso fino al giorno seguente e di entrare in un bar che sembrava essere, quello di moda, dato che nelle sue vetrine si annunciavano distinti eventi culturali e sociali. Il recinto era un po' desolato, c'era appena un cliente, seduto di spalle alla porta e lievemente inclinato sul tavolo, occultando il viso tra le sue mani
- Un cappuccino ed un panino -gli chiede alla commessa, che sembrava triste, quasi sul punto di piangere.
- Desidera qualcosa di piu? - gli domanda tra le lacrime che cominciavano a scivolare per le sue guance.
- Per ora, no. Scusi, ma...
- Desidera qualcosa di piu? -gli ripete.
- Oh, no, grazie, soltanto vorrei fargli una domanda: Ha qualche probblema?, Posso aiutarla?.
- No, non mi succede niente di particolare, grazie. Per favore, che ora è?.
- Sono le cinque e mezza -Rispose ancora più sconcertato, mentre deviava la sua vista verso la vetrina, simbolizzando con quello gesto la sua intenzione di non intromettersi in problemi altrui.
Il suo sguardo rimase fisso, osservando le tre persone che camminavano per il marciapiede, due uomini ed una donna che tentando di consolarsi tra loro, non potevano contenere il pianto. Non era una casualità, magari un segno," dovrei giocare al più presto possibile il 65, le lacrime, nel prossimo sorteggio", pensò Carlo e preso dall' impulso ludico, pagò il suo conto senza prestare troppa attenzione alla commessa in lacrime ed uscì in fretta dal bar per dirigersi al locale di lotteria situato giusto all'altro lato della strada. Nel tragitto incontrò un bambino che sembrava piangere. Lo sconcerto fu totale, quando l'anziano commesso del negozio di gioco, tentò di forzare un sorriso mentre gli domandava cosa desiderasse tra i singhiozzi. Questo gli fece pensare nell'esistenza di un complotto per prenderlo in giro, e che forse in quel paese fosse il divertimento più praticato nei confronti dei visitatori.
- Non si preoccupi, signore -gli dice l'anziano come indovinando il suo pensiero. -è logico che richiami la sua attenzione, ma in cinque minuti tutto finisce, almeno per oggi -.
- Che cosa finisce?.
- Quello che lo stupisce tanto, il pianto. Crede che non siamo coscienti della sensazione che causa nella gente. Ho visto migliaia di facce con la stessa espressione della sua, ripetersi col tempo fino a che si abituano.
- Si abituano? Mi scusi ma, non la capisco molto bene. Potrebbe spiegarsi meglio.
- Quando l'orologio segna le ore 18 tutto il paese inevitabilmente smette di piangere fino a domani alle 17.30 quando ricomincerà. Così si succedono i giorni in questo paese e niente e nessuno può modificarlo. Ma, stia tranquillo che i visitatori ne siano colpiti da questo fenomeno.
- Lei sta parlando sul serio?. Vuole dire che tutti gli abitanti di questo posto soffrono quella situazione a diario e non è volontaria. Qualcuno ha fatto qualche ricerca su questo fenomeno?.
- Lei, non ha letto niente?. Ci sono vari libri scritti al riguardo. Ecco questo esemplare intitolato: "Il misterioso pianto di Rinascimento. Miracolo o Punizione?." Lo prenda se vuole e me lo restituirà quando può.
Già nella sua camera, sfogliando il libro seppe di alcune delle diverse teorie che, tra le altre, si erano scritte sulla causa di questo fenomeno tanto particolare: un virus sconosciuto, un nuovo prodotto chimico per rendere potabile l'acqua, un caso di malinconia collettiva cronica, la risacca di una nuova sostanza stimolante coltivata esclusivamente nella regione. L'autore non giungeva a nessuna conclusione valida lasciando al lettore molte informazioni ma aumentando la sua confusione ed intrigo.
Dopo una settimana, Carlo si era abituato già a tutte le modalità e problemi degli abitanti. La domenica siccome aveva il giorno libero decise di fare una visita ad uno dei più conosciuti posti di attrazione turistica della zona: il "Ex-bosco di Mirti." Era da due anni che il nome del bosco aveva acquisito il nuovo prefisso, quando un incendio devastatore distrusse tutti i suoi alberi e vegetazione. Era stato una delle bellezze naturali più visitate del paese per dopo trasformarsi in un trofeo molto bramato per i produttori cinematografici. Da un anno era famoso per essere stato scelto come scenario per il film di fantascienza "Morte di un Pianeta ". All'entrata dell'ex-bosco funzionava un Museo di specie estinte; potevano trovarsi lì, dimostrazioni fossili di animali e vegetali tanto preistorici come contemporanei. Nel centro della sala si trovava una riproduzione di quello che era stato il bosco in tutto il suo splendore ed in un estremo del plastico in un cartello di legno intagliato brillava la seguente iscrizione:

"Le persone che hanno acceso in fiamme
la sapiente di questi alberi,
benché piangano di dolore la sua vita intera
non raggiungeranno l'acqua sufficiente
per pulire le ferite
che a questa terra ed ai suoi figli
gli hanno fatto."

I folletti.



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