giovedì 18 aprile 2024
Racconti d'Orrore

LA FABBRICA DEL TEMPO

Non posso rivelare il motivo delle mie ripetute visite al Castello di Nothunderland, nemmeno ora che, dopo lunghi anni, l’ho finalmente appreso. Qualcuno, nell’oscurità senza confine dove dormo sonni senza sogni, continua a sussurrarmi di non trasmettere l’eco di quella verità, pena l’annientamento, l’eliminazione eterna, per me e per chi amo sopra ogni cosa e oltre ogni tempo.

Mi è stato però concesso di raccontare il mio ultimo viaggio al castello, a chi volesse e potesse fermarsi ad ascoltare l’inutile vibrazione fuori sintonia di una variabile impazzita.

Il viaggio era iniziato di notte, oltre le mura della città. Il buio era totale. Nessuno aveva acceso la luna e le stelle, né ulteriori luci, eppure sapevo di non essere sola, sentivo il respiro di altri viaggiatori in attesa come me: solo allungando il braccio avrei potuto toccarli. Ma non lo facevo.

Latrati e ululati cominciavano a udirsi in lontananza: se le fiere del bosco selvaggio ci avessero raggiunti, il viaggio non sarebbe mai cominciato. I suoni mugghianti si avvicinavano, quando all’improvviso era apparso il cocchiere, reggendo un lume a olio e una torcia elettrica, buoni a illuminare soltanto la nostra grande carrozza nera. Dietro al cocchiere trotterellavano quattro cavalli bianchi, che si erano fatti imbrigliare senza emettere un verso.

Mentre salivo in carrozza non avevo potuto fare a meno di notare che la mano destra del cocchiere era finta, di legno chiaro.

“Qualcosa non va, signora?” Il suo tono era duro, sprezzante; con la mano sana aveva scostato il pesante mantello scuro, qual tanto che bastava a mostrare la metà sinistra del volto, intagliata nello stesso legno della mano e legata con filo di rame all’altra metà di carne.

Mi aspettavo di gridare e svenire, come le altre volte, invece con mio stupore non avevo manifestato alcuna reazione, e mi ero accomodata in carrozza, stretta fra viaggiatori silenziosi che non riuscivo a vedere per il buio fitto dell’abitacolo. Potevo riconoscerli dagli odori, dai suoni: percepivo il profumo dolciastro della Pittrice, distinguevo il crepitìo secco delle carte del Giocatore, e altri particolari che, individuati e riconosciuti, riacquistavano familiarità.

Chi ero io? Quale era il mio nome? Con un tonfo al cuore mi ero resa conto di aver dato per scontato che fosse tutto come le altre volte, la mia identità e quella degli altri, il nostro viaggiare insieme. Aver riconosciuto suoni e odori non significava nulla, non avevo forse già appreso che ogni cosa poteva cambiare, ad ogni nuovo viaggio? Mi ero tastata il volto, i capelli: nulla appariva diverso dal solito. Mi toccavo il petto, le cosce, ritrovando dimensioni familiari.

Ma cos’era quella luce? Un lampo vivido aveva ridato vita al volto strano e bello del Giocatore, bianchissimo, con grandi occhi azzurro cupo che, sotto la frangia nera, non riuscivano a riscaldare quei tratti delicati e inespressivi: “Sei tu, l’Assassina! Sentivo il tuo respiro…” Mi aveva sussurrato, accarezzando le carte con quelle mani dove le vene azzurrine giocavano a intrecciarsi sotto la pelle diafana. Ero ancora la stessa, sempre la stessa, l’Assassina… sicurezza e predestinazione, gioia e amarezza, i due volti del trovarsi legati a un nome e ad una sorte, come le due facce, una umana e l’altra mostruosamente finta, del cocchiere! Ma perché quest’ultimo non spronava i cavalli? Cosa ci facevamo lì, fermi, con quelle luci che nel buio apparivano e sparivano, muovendosi sempre appaiate… non erano luci, ma occhi! I latrati, gli ululati, dovevano essere cessati quando le fiere del bosco si erano avvicinate abbastanza per poterci accerchiare e mangiare senza difficoltà; forse i cavalli erano già morti, forse la fine era vicina; un urlo stava per uscirmi dal petto, quando con uno scossone brutale la carrozza si era messa in moto lasciandosi alle spalle quei puntini luminosi.

Durante il viaggio avevo dormito pesantemente; al mio risveglio la luce rosea dell’alba ci aveva visto in fila nel prato davanti al castello, in attesa che la portineria aprisse. L’aria dolce di quel mattino non doveva trarre in inganno: a Nothunderland potevano presentarsi estate, inverno, primavera e autunno più volte nell’arco della settimana, e perfino in una stessa giornata. Non per niente, le valigie che trainavamo contenevano un abbigliamento assai variegato.

Il Castello era una costruzione solida e alta, dall’intonaco giallognolo, senza fronzoli ma con fregi e intagli di preziosa fattura; il prato che lo circondava era vasto, attorniato da una muraglia di piccole piastrelle in ceramica con tutti i colori dell’arcobaleno sfumati in un continuo allegro e anticlassico.

La Pittrice, seduta per terra, mi sorrideva: “Che aria! Che luce! Riuscire a riportarle sulla tela…”

La Madre chiamava ripetutamente la Bambina che correva nel prato: “Vieni qui! Non allontanarti!”

Il Buffone faceva boccacce da dietro a un cespuglio, ma la Bambina non rideva né si spaventava.

“Scegli un carta!” Il Giocatore apriva e richiudeva le carte a ventaglio; ne avevo acciuffata una: il re di cuori. “Prendine un’altra!” Mi invitava, ma io, scuotendo la testa, gli avevo detto: “Siamo qui per lavorare, non per giocare.” Perché nel castello di Nothunderland una cosa era certa: si lavorava per fabbricare il tempo. Il modo di fabbricarlo poteva cambiare ad ogni visita, come spiegava il regolamento che la portinaia, ormai seduta al suo posto, stava per darci: il risultato non cambiava, dovevamo fabbricare tempo che avremmo poi usato per compiere la nostra missione. Quale fosse questa missione l’avremmo appreso poco per volta, raccogliendo segni e segnali.

“Buongiorno, bentornata! Stanza ottantotto quarto piano. Terza scala a destra, dopo i primi tre scalini della scala principale, e il secondo corridoio.” La portinaia bionda, grassoccia e sorridente, mi aveva dato la chiave e il regolamento con una strizzatina d’occhio, come se mi riconoscesse; in realtà non l’avevo mai vista prima d’ora.

Il castello aveva una struttura assai complicata: mentre la porzione che dava sul prato era sviluppata simmetricamente sia in larghezza che in altezza, la parte che si affacciava sul cortile interno presentava invece un aspetto totalmente asimmetrico: un lato era liscio, ma con le finestre e i balconi di foggia e dimensioni variegate; gli altri lati penetravano all’interno del cortile con costruzioni di differente altezza, in totale assenza di ordine o specularità. Per raggiungere questi addentellati interni, vi erano quindi più scale, e non tutte conducevano a tutti i piani; avendo però l’edificio una pianta quadrata e aperta, era possibile girare più volte sullo stesso piano principale finchè non si trovava la scala laterale giusta. A questo punto, c’era comunque il rischio di perdersi in queste strutture, dei veri e propri edifici a sé stanti con corridoi che si ricongiungevano, oppure erano ciechi, oppure terminavano in ponti tra una struttura e l’altra.

Anche lo stile dell’arredo era diverso, non solo da piano a piano, ma anche da zona a zona e da camera a camera. La mia, che avevo appena raggiunto, era moderna, con mobili in giallo oro e verde, lisci e lucidi; le pareti erano dipinte di bianco; il bagno era piastrellato d’azzurro con sanitari in tinta, dai rubinetti però classici, in ottone con teste di leone sulla sommità.

Avevo un minuscolo balcone con ringhiere verdi, da cui potevo quasi sfiorare le colonnine in marmo rosa del terrazzino della camera di fronte, che era arredata con mobili antichi di legno scuro, e aveva i muri ricoperti da una boiserie dello stesso legno.

La camera aveva le finestre spalancate, ed era vuota. Non potevo sapere chi l’avrebbe abitata: nel castello, oltre a noi viaggiatori appena arrivati, si trovavano numerosi altri ospiti, e ancora ve ne potevano giungere in qualsiasi momento.

Avevo letto attentamente il regolamento, e avevo appena finito di disfare la valigia, quando il segnale, una sirena acuta, si era fatto sentire: il lavoro cominciava. Tenendo in mano il badge che avevo staccato dal foglio del regolamento, seguendo le istruzioni, ero uscita diligentemente dalla mia stanza, raggiungendo il corridoio tutto marmi e specchi barocchi.

La fabbrica del tempo, questa volta, funzionava secondo un meccanismo di timbrature in perfetto stile aziendale: si girava per il castello cercando una macchinetta sulla quale si doveva strisciare il badge, per essere “in” e cominciare a produrre tempo. Si doveva poi girovagare ancora per il castello, e quando si incontrava un’altra macchinetta, si era obbligati a timbrare, trovandosi così “out”. A questo punto si partiva alla ricerca di un’altra macchinetta, per tornare “in”, e così via, finchè la sirena non ci avvertiva dell’ora di pausa per pranzo o cena: ognuno rientrava nella propria camera, dove un pasto pronto lo attendeva. Dormire la notte non era obbligatorio, si poteva continuare a lavorare; comunque al mattino presto suonava la sirena della sveglia, per tutti alla stessa ora: dopo mezz’ora partiva il segnale di inizio lavoro.

Ci si poteva muovere liberamente in ogni parte del castello, uscire nel cortile interno o nel prato: era ovviamente proibito, nonché impossibile, oltrepassare l’alto muro di cinta colorato.

Le giornate erano tutte uguali, scorrevano in un moto senza fine dove incrociavamo volti conosciuti e sconosciuti, a volte scambiando sguardi, sorrisi o frasi, a volte nella più assoluta e vuota indifferenza. Sempre così, tranne nei giorni in cui, dopo la sirena della sveglia, una voce annunciava: “Giorno di missione!”

In quella giornata non si timbrava, ma si usava il tempo accumulato per scoprire qual era la nostra missione, e metterla in atto.

Cosa succedeva se non si osservavano le regole? Si perdeva il tempo messo da parte, e poi… per le inadempienze o le insubordinazioni gravi, c’erano i Sorveglianti. Dei ragni giganti, alti come un uomo, che dalle cantine del castello salivano a stanare, e punire, i colpevoli.

Del primo giorno lavorativo non ho nessun ricordo; era stato il secondo, oppure il terzo, o il quarto, quello decisivo? Non saprei dirlo, ma rammento con esattezza ogni particolare di quella giornata. Innanzitutto, uscendo dalla mia stanza dopo il segnale, avevo imboccato una nuova direzione, trovandomi presto bloccata in un vestibolo semicircolare, dove nella tappezzeria damascata macchiata di giallo dall’umidità erano ritagliate quattro porte, pure rivestite di damasco: istintivamente, avevo aperto quella più a sinistra, scontrandomi quasi con la Donna delle Pulizie che, secchio e stracci in mano, aveva appena timbrato un “in” proprio dove stavo per timbrare anch’io, all’imboccatura delle scale. Ero entrata in un ambiente ultramoderno, con scale larghe, di marmo nero, affiancate da un corrimano di plastica rossa trasparente, dove, vetrificate, avevano smesso di agitarsi delle lucertole. Invece, pesci e sirene continuavano a nuotare sulle pareti azzurrissime; scendendo i gradini, mi ero avvicinata troppo a una murena che, balzando fuori dal muro, mi avrebbe staccato un pezzo di braccio, se, con un grido, non fossi stata rapida nel tirarmi indietro, appoggiandomi al corrimano. Le lucertole, al mio tocco, avevano ripreso vita e mi camminavano sulle mani, ma non aveva importanza, dovevo continuare a scendere, senza curarmi neppure delle risate odiose del Buffone, che dal fondo delle scale aveva assistito alla scena. Per non incontrarlo, aprendo una grande porta a vetri Liberty, ero uscita sul terrazzo: da qui potevo scegliere se salire su un ponticello d’acciaio, oppure scendere ancora degli scalini di legno che conducevano a un terrazzino sottostante. Nonostante la pioggia gelida che aveva preso a cadere, mi ero incamminata sul ponte. Cosa sarebbe accaduto, in seguito, se invece avessi optato per la seconda alternativa? La scelta, nostra croce e delizia! In quel momento, macchinalmente inserita nella produzione del tempo, ignoravo la gioia, il dolore, il vuoto del nulla, che avrei attraversato lungo il cammino intrapreso.

Una porticina di ferro arrugginito si era spalancata di botto, al solo sfiorarla: ero in un corridoio luccicante di marmo rosa, velluto cremisi e lampadari di cristallo, così vaporosi che parevano doversi rompere grazie a un respiro troppo forte. Con me, tuttavia, non avrebbero corso alcun rischio: il respiro mi si era fermato quando l’avevo visto, e avevo capito di amarlo.

Avrei dovuto credere che fosse tutto predestinato? Oppure che fosse un trucco, un segnale da interpretare al contrario, e quindi allontanarmi in fretta? Non potevo fare a meno di guardarlo: in fondo al corridoio, in piedi davanti a una grande porta di cristallo a doppio battente, con grevi maniglie d’ottone, lui, alto e grande, nonostante il maglione azzurro troppo lungo e largo, osservava le magnifiche volute di un lampadario di cristallo color carne sfumata, e con un vago sorriso, la mano sollevata, tentava di rapire l’illusione della spuma vitrea in movimento. Per quanto assurdo fosse, prima ancora che mi vedesse e allargasse il sorriso, come un sole estivo liberato dalle nuvole, guardandomi con occhi teneri e ridenti, prima ancora di questo, sapevo di amarlo, come ad occhi chiusi si riconoscerebbe il getto dell’acqua fresca sul palmo della mano, o sui capelli la carezza della propria madre… ormai era destino: tra gli innumerevoli percorsi del castello, da quel momento i miei passi avrebbero perseguito, anche se non l’avessi voluto, la ricerca del trovato amore.

Avrei voluto conoscere il suo nome, ma prima dovevo avvertirlo del grave pericolo che lo minacciava: “Non puoi stare così fermo!” Gli avevo gridato, avvicinandomi. Al mio urlo, non erano stati solo i cristalli a vibrare stridendo: si era accavallato un altro suono acuto e sgradevole, prodotto da qualcuno o qualcosa che stava arrivando… la porta a vetri dietro di lui si era adombrata, e lentamente, molto lentamente, tentava di aprirsi per lasciare che si insinuassero i peli sozzi e ripugnanti di una zampaccia gigante… i Sorveglianti!

L’avevo raggiunto, preso per mano, trascinato via, correndo per scale, corridoi, cunicoli bui e vasti atri lucidi come specchi, timbrando e ritimbrando! Anche quel muoversi in coppia era contro al regolamento, così, dopo l’ultimo ponticello di pietra attraversato sotto un sole estivo caldissimo, avevamo preso direzioni diverse, guardandoci lungamente … one longing lingering look behind, come recita un’antica poesia inglese.

La notte ci aveva offerto una rivincita: suo era il terrazzino che sfiorava il mio, sua quella camera, dove ci eravamo amati con passione e tenerezza. Una camera tappezzata di fogli scritti a mano, sulle pareti, sul pavimento, sui mobili antichi; fogli pieni di poesia, perché, l’avevo saputo, il suo nome era il Poeta.

Prima dell’alba ci eravamo separati: niente parole tra noi, solo le poesie che il Poeta, raccogliendole qua e là, mi porgeva da leggere. Ne ero certa, anche lui mi amava.

Il segnale del risveglio era stato un duro richiamo alla solitudine: si apriva un giorno di missione. Una borsetta di raso rosso, annodata in vita, era il mio raccoglitore degli indizi; come prima cosa vi avevo messo un’unghia finta dipinta di bianco, trovata fuori dalla mia porta. L’unghia puntava verso est: seguendo quella direzione, mi ero ritrovata nel vestibolo dalle quattro porte; il tessuto di quella più a destra appariva graffiato, come da un’unghia… senza esitazione avevo spalancato la porta e mi ero addentrata in un corridoio stretto, senza finestre, con tubi al neon agonizzanti nell’alto soffitto; il pavimento, di pietra grigia consumata, era in leggera discesa. Camminavo, respirando un’aria malsana che puzzava di chiuso e di vino inacidito; all’improvviso, qualcuno dietro di me aveva preso a lanciare per terra delle biglie di vetro che mi passavano accanto rotolando e smarrendosi chissà dove. Non avevo visto nessuno, inizialmente, ma poi, prima che il corridoio facesse una brusca curva a gomito, mi aveva sorpassato correndo la Bambina, e con una risata aveva saltato i tre gradini che dal pavimento immettevano in una grande e bellissima serra con vetrate unite da giunture d’oro sbalzato e lavorato a grappoli d’uva e fiori.

Le sue risa e i suoi passi si erano dissolti tra le grandi foglie delle palme, i colori caldi delle violette africane e dei gerani, quelli freddi degli iris e dei lilium.

Mentre procedevo lentamente, alla ricerca di qualcosa che non potevo conoscere, mi aveva colpita al braccio un limone lanciato da un angolo nascosto: la Madre, con i segni dell’angoscia negli occhi sbarrati e sul viso pallido, era affiorata da quell’angolo, per domandarmi: “Ehi, tu, hai visto la mia bambina? Non riesco più a trovarla, l’ho persa, come faccio?” Nei suoi occhi l’angoscia si era presto tramutata in diffidenza, paura, odio: era fuggita via con un gemito, impedendomi di rassicurarla. E come avrei potuto riuscire in questo intento, quando ero l’Assassina? A Nothunderland speravamo ogni volta che la nostra missione non riguardasse il nostro nome, nutrivamo il sogno di poterci sganciare dalla solita vita, dalle catene di un destino già noto: e ogni volta, scoprivamo che questi desideri non si sarebbero realizzati. E forse questa era la punizione per aver osato tramutare in desiderio il nostro malessere, non avendo quest’ultimo importanza alcuna, dal momento che tutto era già stato previsto.

Reprimendo lacrime inutili, avevo sobbalzato per una mano abbattutasi sopra la mia spalla: una grassa risata, un soffio di alito pesante contro la mia guancia, “Vieni a vedere che bella sorpresa ti ho preparato!” Ghignava il Buffone, facendomi accostare a un gruppo di palme disposte a cerchio. Mi ero subito stupita per il rumore tenue, un gocciolare continuo, che proveniva dall’interno del cerchio; mi ero infilata tra due vasi, e il forte, improvviso odore metallico, purtroppo non mi aveva respinta … e cosa mi era toccato vedere, quale orrore avevo dovuto subire! Non avevo abbastanza voce per gridare, né lacrime per piangere! Conficcata in un vaso pieno di terra, a sua volta dentro un grande catino di rame, si ergeva una canna di bambù, e alla sua sommità, gocciolando sangue senza tregua, era conficcata la testa bionda e senza occhi della Bambina!

Mentre, accasciata sul catino, mischiavo il mio vomito al sangue, il Buffone si piegava in due dalle risate. “Penseranno … che sei stata tu!” Strizzandomi l’occhietto porcino, aveva aperto uno dei vetri della serra. “C’è troppa puzza, qui, cambiamo l’aria! Bye Bye, baby!” Fischiettava la canzoncina, nell’allontanarsi sculettando verso il fondo della serra. Dal vetro aperto entrava una gradevole brezza primaverile; tra gli acini del grappolo d’oro che faceva da maniglia era incastrata una pallottolina di carta: un segnale per me. Sopra, c’era scritto: “Una rosa, con qualsiasi altro nome, profumerebbe ugualmente”. William Shakespeare … guardandomi intorno, avevo notato un tavolo di vimini, al centro della serra, sul quale era stato collocato un cesto di pere William. Mi ero mossa verso il tavolo, quando un dolce profumo di rose aveva attraversato l’aria sulle ali di un calabrone ronzante, che aveva fatto mezzo giro intorno a me, e si era infilato in una grossa siepe di ligustro.

La siepe, come avevo subito scoperto, era in realtà una porta di foglie, agganciata ad una scala di marmo; gli scalini mi avevano fatto salire fino a un grande corridoio con pareti e pavimenti di marmo azzurro e albicocca, altissimi specchi anneriti, sedie e tavolini antichi, mal lucidati, allineati lungo il fulgore marmoreo dei muri. Una porta di legno scolpita, alla mia sinistra, recava la scritta “Toilette”. Avevo visto uscirne la Madre e la Bambina abbracciate. “Non allontanarti più da me!” La Madre si attardava a sistemare una mollettina rosa tra i capelli della piccola, per poterli accarezzare una volta di più.

“Mamma, io non ti vedevo!”, si giustificava la Bambina.

Le avevo perse di vista quasi subito; loro non si erano accorte di me, né avrebbero potuto capire il mio infinito sollievo, destinato tuttavia ad appannarsi, perché sopra una venatura albicocca del pavimento luccicava un elastico fermacapelli dorato, che alla sommità recava una rosa bianca, di stoffa profumata! Senza dubbio era caduto alla Bambina … no, non era possibile, non poteva essere questa la mia missione, uccidere una creatura così piccola e innocente! Inginocchiata sul pavimento, stringendo l’innocuo, simbolico oggetto nel pugno, ripensavo ai colpi di rivoltella sparati, alle pugnalate inflitte, al veleno somministrato, il tutto a sangue freddo, senza ribellarmi, perché avevo un ruolo da interpretare, un compito da svolgere; invece un bambino … no, mai avevo né avrei potuto privare della vita chi ancora non l’aveva vissuta! Mi ero alzata, e automaticamente erano partite le note musicali di “Riders on the Storm” dei Doors, intorno a me, sopra di me, sotto di me, nel mio cervello; e la musica non si sviluppava, ma accompagnava i miei passi con il medesimo ritornello ripetuto all’infinito: “There’s a killer on the road…” Non c’erano dubbi, io ero sempre, e ancora, nel nome e nella missione, l’Assassina.

Sul corridoio si affacciava una porta di vetro smerigliato; stretti scalini di ferro verniciato di rosso scendevano fino ad una sala lunga e stretta, una sorta di galleria d’arte semibuia. Numerosi erano i quadri esposti, tutti ritratti accademici di poeti classici e romantici: Thomas Gray, Coleridge, Burns, Byron… ma l’ultimo non era un ritratto. Mi ero coperta gli occhi, vanamente, perchè ormai l’immagine era impressa a fuoco sulla mia retina! Nel quadro si vedeva una figura femminile, con il volto in ombra, e sulla sua maglietta nera, ben illuminata, sopra il seno era stampata una scritta rossa sbavata: KILLER ON THE ROAD. La donna era appena entrata in una stanza buia, con i mobili antichi e le pareti ricoperte da una boiserie di legno; con la mano destra teneva ancora la maniglia della porta, mentre nella sinistra, piegata dietro la schiena, reggeva un misterioso involucro grigiastro. Nella stanza, vicino alla finestra del balconcino c’era una scrivania ricoperta di fogli di carta vergati a mano; uno di essi era tra le mani di un uomo che sorrideva radioso alla donna… era il Poeta, il mio amore!

“Assassina, il tempo a tua disposizione sta per scadere! Rientra nella tua stanza!” Aveva annunciato una voce metallica, e un segnale luminoso intermittente si era attivato per mostrarmi la strada più breve da seguire, alla mia destra. Oh, pensavo singhiozzando, la giornata era stata più che proficua! Avevo saputo quale era la mia missione: uccidere il Poeta, l’uomo di cui ero innamorata, e che mi amava!



Produrre e consumare tempo: giorni, forse settimane, forse anche mesi, oppure soltanto ore; i segnali, gli indizi, gli elementi, i materiali, si erano accumulati; gli ingranaggi giravano senza tregua e mi trasportavano sul nastro di quel destino che non offriva alternative alla ripetizione di quello che già ben conoscevo. Inutile domandarmi perché dovessi uccidere, e perché proprio il Poeta; solo chi teneva le fila del gioco sapeva e aveva il potere di decidere, ogni volta. L’amore, quello era un fuori programma, un baco, qualcosa che non andava! E ci amavamo, eccome. Le notti erano tutte nostre: sguardi, sussurri, poesie, carezze, baci… non mi risparmiavo, nonostante quello che sapevo e l’angoscia dolorosa che provavo. (“Girl you’ve got to love your man”, non per niente proseguiva così la canzone dei Doors). Quando rientravo nella mia stanza, la prima cosa che vedevo era il pacchetto grigiastro, involucro di un potente veleno: l’arma dell’Assassina. E allora pensavo e ripensavo a un modo per sottrarre me e il Poeta all’inevitabile; tuttavia, da qualunque prospettiva esaminassi i fatti e le circostanze, l’unica salvezza mi si palesava nel fuggire insieme da quel posto, in altri termini dal sistema. Come fare? Qualunque mossa anomala prolungata o ripetuta attirava in breve tempo i Sorveglianti! Nel mio girovagare, dietro al divano di un grande salone con camino, avevo trovato un corpo umano, irriconoscibile, avvolto in una gigantesca ragnatela appallottolata, per metà divorato dai ragni giganti. Un monito, una minaccia?

Poi era accaduto il miracolo, l’imprevedibile, il fatto che non era necessario. Un pomeriggio umido e ventoso, mi trovavo a camminare a ridosso del muro di cinta; fantasticavo su come scavalcarlo, e su cosa poteva esserci all’esterno: lo ignoravo, infatti, poiché durante i viaggi per Nothunderland, causa il sonno o l’oscurità, non avevo mai potuto osservare il paesaggio oltre il punto di partenza, e prima di quello d’arrivo. Svalicare era pura fantasia: il muro, con le sue piastrelline lisce e lucide, non offriva alcun appiglio, ed era veramente altissimo. Per scorgerne la cima, avevo piegato il collo all’indietro a tal punto che avevo perso l’equilibrio, e mi ero dovuta buttare in avanti contro il muro, urtandone con il piede la base. Con mio grande stupore, alcune piastrelle si erano staccate, lasciando franare una discreta quantità di sabbia. Dunque il muro era fragile? Sarebbe stato possibile aprirsi un varco per fuggire? Bisognava tentare … e qui avevo avuto l’idea, la grande illuminazione!

Durante le sere successive, chiusa dentro il mio bagno, avevo sciolto il terribile veleno dentro diverse bottiglie d’acqua; con due spazzole per capelli e del filo di ferro trovato in giro, avevo fabbricato una specie di zappa. Mi restava da decidere quando intervenire, vale a dire aspettare il momento in cui avrei avuto tutti gli elementi per portare a termine la mia missione. Momento che, se ben ricordo, era arrivato piuttosto in fretta. In una giornata di missione, ero capitata in un grande salone vittoriano, con un camino scoppiettante tra due divani di velluto e raso color limone e biscotto, occupati uno dalla Pittrice, languida in una vestaglia color malva, l’altro dal Giocatore, imperterrito nel comporre e scomporre un improbabile solitario.

“Oh, l’Assassina!” Mi aveva sorriso la Pittrice, e dalla tasca della vestaglia aveva estratto una miniatura senza cornice. “Guarda che cosa ho dipinto, ti piace?” Soavemente mi aveva piazzato davanti agli occhi il piccolo olio: vedevo un uomo e una donna dai volti indistinti, nudi sopra un letto; la testa dell’uomo e le braccia penzolavano senza vita, mentre la donna, sdraiata sopra di lui, toglieva da quelle dita esanimi un calice vuoto!

“Sai come l’ho intitolato?” Lo sguardo salottiero della Pittrice andava e veniva sui miei lineamenti contratti.

“Domani sera?” Avevo sussurrato, passandomi le mani nei capelli.

“Brava, hai proprio indovinato!”

“Grazie! Hai una carta per me, Giocatore?” Mi ero voltata verso di lui, ma era già scomparso. Un vero peccato, avrei voluto sapere cosa prevedeva la sorte per la sera seguente… in cui avrei dovuto mettere in atto il mio piano.



La sera dopo. Ero entrata nella stanza del Poeta con le bottiglie colme di acqua avvelenata. Gli avevo detto tutto, della mia missione e di come volessi eluderla fuggendo con lui, e gli avevo spiegato in dettaglio quello che avremmo fatto, di lì a poco.

“Fuggire, sì, fuggire!” Mi stringeva a sé disperatamente, ripetendo come un’invocazione quelle parole, l’unica speranza rimasta, cucita all’ultimo granello di sabbia della nostra clessidra. Nei suoi occhi avevo letto l’angoscia di sapersi mia vittima, e la gioia, la gratitudine per la salvezza che, con il mio amore, gli stavo offrendo.

Dopo l’ultimo bacio, avevamo volato, per quella che speravamo fosse l’ultima volta, attraverso i corridoi, i vestiboli, i saloni, le scale, le gallerie, ritrovando magicamente la strada fino al muro di cinta, proprio dove stava cedendo. Avevamo collocato le bottiglie con il veleno, aperte, dietro di noi; la mia idea era di usarle come arma di difesa contro i Sorveglianti, che sarebbero senz’altro sopraggiunti, mentre con le mie spazzole per capelli, e le nude mani, noi avremmo tentato di aprire un varco nel muro.

Tutto procedeva facilmente, fin troppo; il muro cedeva come ghiaccio al sole, e nella tiepida serata estiva il silenzio copriva ogni cosa, come la luce della luna piena, non adombrata dalle orride forme dei Sorveglianti. Perché non arrivavano? La nostra temerarietà era così sfrontata da risultare non intercettabile? Incredibile! All’improvviso, la mia mano aveva sfondato il muro, e con il braccio ero già oltre! Una corrente frizzante mi accarezzava la pelle, percepivo il vento della libertà. Il Poeta con pochi gesti aveva allargato il varco a sufficienza perché mi ci infilassi: tenendo gli occhi chiusi, avevo inserito la testa, e le spalle, mentre il Poeta mi teneva per la vita. Avevo atteso qualche istante, prima di spalancare gli occhi: quel gesto semplice e istintivo valeva il senso di una, anzi due vite. Eppure quello che avevo visto poco dopo mi aveva fatto desiderare di non averli mai aperti, gli occhi, né di avere mai scavato quella breccia! Non mi è consentito di rivelare che cosa si trovava, e si trova, fuori dal sistema, per ragioni analoghe a quelle che mi impongono il silenzio sui ripetuti viaggi al Castello di Nothunderland: posso solo dire che avrei voluto richiudere il varco, e aggrapparmi al Poeta lasciando che si compisse il nostro destino.

“Non è come credevo! Tirami fuori da qui!” Gli stavo gridando, ma le sue mani dolci e ferme come la pietra mi bloccavano.

“Tu non sai…” sussurrava, “Tu non sai qual è la mia missione, non è vero? Oh, non te l’ho ancora detto: io devo eliminare l’Assassina, il virus che compromette la stabilità del sistema! Dico eliminare, non uccidere! Tu mi hai già ucciso, in altri viaggi, anche se non lo vuoi o non lo puoi ricordare, e anch’io ti ho ucciso almeno una volta. Uccidere a Nothunderland è come addormentare, è temporaneo, invece eliminare è per sempre!”

La sua voce si era alzata su queste ultime parole; le sue mani mi spingevano le gambe e io stavo scivolando verso l’oltre, l’altro; non mi dibattevo, non cercavo di tornare indietro: dopotutto, ormai l’orrore più grande sarebbe stato vedere la malvagità o anche solo l’indifferenza su quel volto a me tanto caro, amato e familiare!

Non mi è dato sapere se e quando ritornerò a Nothunderland: solo chi governa il mio, e gli altri destini, potrà decidere in quale sistema reintegrarmi.

Ora non produco più tempo: lo consumo nello sforzo disperato di ricordare se davvero, gettandomi infine fuori dal varco, il Poeta mi avesse urlato: “Ti amo!”


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LA VOCE

La biblioteca si stava svuotando; gli studenti continuavano a uscire con flusso costante, e appena fuori si distribuivano nelle varie tavole calde, snack bar o in qualche trattoria a buon prezzo. Angelo iniziava a respirare, non sopportava troppe presenze, anche se silenziose, intorno a sé, gli toglievano forza e lucidità. Lui non aveva obblighi scolastici, frequentava quel posto per trovarvi degli stimoli culturali, per soddisfare alcune sue curiosità a livello intellettuale. Nei giorni precedenti aveva letto un libro di zoologia e dato un’occhiata ad una monografia sugli invertebrati, poi si era occupato dei moderni romanzieri spagnoli, i suoi preferiti sotto il profilo narrativo, spesso estrosi e creativi. Infine, stava svolgendo delle ricerche su Nora Lamberti, una cantante dalle straordinarie capacità vocali, scomparsa da quelle zone da una ventina d’anni e in maniera alquanto misteriosa. Secondo i giornali d’epoca doveva essere partita all’improvviso, ma esisteva anche la possibilità che fosse morta in un incidente nonostante il suo corpo non fosse stato ritrovato. Dalle foto Angelo realizzò che doveva trattarsi di una bella donna; i lineamenti erano piuttosto regolari, i capelli lunghi e ricci si snodavano attorno al viso dall’espressione vivace e insieme attenta. Stando alle cronache l’estensione vocale della Lamberti raggiungeva le cinque ottave, e i suoi incredibili virtuosismi avevano indotto la critica a paragonarla alla grande cantante peruviana Yma Sumac. Possedeva inoltre una grande presenza scenica, con movimenti sinuosi ed aggraziati del corpo che sottolineavano il canto. Appassionato da sempre di musica, in passato aveva collaborato con diverse testate che si occupavano di rock, jazz e avanguardia, Angelo si sentiva attratto verso quella figura di artista, e non vedeva l’ora di ascoltare qualche sua composizione (tra l’altro era anche un’autrice), ma il ben fornito negozio di dischi posto nel cuore della cittadina non aveva nulla della Lamberti. Angelo si era informato dalla proprietaria del negozio, una bella signora bionda sulla quarantina, che gli aveva risposto che tutta la produzione discografica della cantante risultava da tempo fuori catalogo. Trovando strana la faccenda, Angelo aveva svolto delle ricerche su internet, dalle quali risultava che diversi titoli erano ancora disponibili, ma dopo l’ennesima richiesta la signora bionda aveva chiuso il capitolo dicendogli che sussistevano dei problemi di distribuzione e che in tutti i modi i CD della Lamberti erano comunque irreperibili.

Angelo richiuse i grandi volumi delle annate dei quotidiani e li riconsegnò ad una bibliotecaria. Tutte quelle notizie che aveva letto si frammischiavano e si ricomponevano nella sua testa. Lui avvertiva un senso di incompiutezza, sentiva che qualcosa gli stava sfuggendo e urtava la sua natura di uomo portato a sintetizzare, a definire.



Angelo uscì dalla biblioteca e cercò subito di confondersi con la gente in strada. Fino a quel momento non aveva avuto delle senzazioni positive; percepiva la diffidenza di diverse persone e l’ostilità di altre, e a tutto questo non riusciva a darsi una spiegazione plausibile. In più di una circostanza, sia per lavoro che per diletto, aveva soggiornato in località montane e aveva ravvisato qualcosa di simile, ma niente di paragonabile a quanto gli stava accadendo. Dato che non si riteneva “un soggetto paranoico doveva esserci un motivo fondato che giustificasse tale atteggiamento. La signora Cesti, la proprietaria del negozio di dischi, lo salutò con uno strano sorriso, poi si fermò a chiacchierare con delle sue amiche. Sembrava che fosse molto considerata all’interno della comunità, riceveva ovunque manifestazioni di rispetto e di deferenza. Dal fondo della strada Angelo vide avanzare verso di lui un uomo sulla cinquantina. Barcollava e i suoi vestiti davano l‘idea di una certa trasandatezza. I capelli schiacciati sulle tempie e divisi in curiose bande indicavano che non venivano sfiorati da tempo da un pettine. L’uomo salutò Angelo e deviando bruscamente dal suo cammino incrociò e sbarrò la strada di quest’ultimo. “Lei è un tipo che mi piace, lo sa? Si vede che è diverso dagli altri, che mira al suo scopo e… e che cerca di ottenerlo fregandosene degli altri, giusto? Eh?” dalla bocca dell’uomo uscivano delle zaffate che indussero Angelo a ritrarsi di qualche passo. “Può darsi che lei abbia ragione” rispose Angelo, tutto sommato più incuriosito che intimorito. “Lei qui è di passaggio, perché non se ne sta tranquillo e si gode la vacanza?” domandò l’uomo in tono concitato. “E’ quello che sto tentando di fare, e poi per me vacanza non significa inedia, abulìa. Scusi, ma perché mi chiede una cosa del genere? Io la conosco di vista, e lei non può certo considerarsi mio amico e…” Angelo venne interrotto dall’uomo che lo trascinò con una forza insospettabile in un vicolo. “Uno a volte commette delle scelte sbagliate, e non può porvi rimedio. Sarà successo anche a lei, no? Si sta con una donna, poi se ne incontra un’altra molto migliore e questa sparisce, capisce? I posti di montagna celano segreti, si prestano a tanti fatti, anche tragici, che è difficile scoprire, spiegare. Qui è facile occultare, c’è l’acqua, ci sono i dirupi, le grotte… Forse qualcuno sa, ma gli viene comodo tacere e godere di qualche privilegio. Lei ha affittato una casa vicino al lago, giusto? L’ho vista passeggiare, continui pure a farlo, e chissà che non scopra qualcosa di interessante. L’ho capito sa? Lei ha lo spirito del ricercatore, è la persona più adatta a questo proposito. L’altro giorno sono entrato in biblioteca e lei era intento a sfogliare dei quotidiani e dopo si è seduto a leggere un libro. In quei momenti sembrava che nessun altro contasse per lei. La capisco, perché anche a me piace leggere, anche se adesso…”



L’uomo si deterse il sudore col dorso della mano. Aveva gli occhi lucidi e il suo respiro era diventato ancora più affannoso. “Mi scusi, sa, ma questo è uno sfogo che tenevo dentro da tanto tempo e attendevo il momento buono, cioè quello di incontrare una persona come lei. Io mi chiamo Alvisi, Cesare Alvisi, mentre lei non occorre che mi dica il suo nome, lo conosco benissimo, tutti lo conoscono” l’uomo tese la mano e Angelo la strinse prontamente. Aveva fiducia in quell’individuo, non era più un perfetto sconosciuto e provava già un sentimento di amicizia. Quei discorsi apparentemente incoerenti gli sembravano legati da una forte logica interna. “E’ meraviglioso possedere certi doni naturali e poi coltivarli col tempo. Si può giungere a dei risultati eccezionali, impensabili. Trovi qualcuno che ti apprezza e un altro che ti appoggia, e quando la tua vita comincia a decollare tutto si dissolve in un attimo”.

Angelo cominciava a capire, a sistemare dei tasselli nella sua mente.



Le sponde del lago presentavano poche insenature; L’acqua era increspata da cerchi concentrici che si formavano e dissolvevano con una piacevole azione perpetua. Dopo aver passeggiato per alcuni chilometri Angelo prese una decisione e si tuffò. L’impatto con l’acqua gli procurò un brivido. Il sole estivo punteggiava di macchie gialle la superficie, mitigandone in parte la temperatura. Angelo si immerse, spaventando dei pesci che gli girarono subito intorno con un movimento organizzato. Da esperto nuotatore sapeva dosare le proprie riserve di fiato così come le forze. Esplorò i fondali, trovandovi arbusti e pianticelle. Angelo sembrava instancabile; dopo ogni immersione recuperava immediatamente le energie e si rituffava senza esitare. Dopo vari tentativi intravide una sagoma sottilissima che si era impigliata tra dei cespugli. Angelo si avvicinò poi si arrestò, annaspando con le braccia. L’agitazione che l’aveva colto lo costrinse a risalire in superficie. Sulla riva c’era la signora Cesti; impugnava una rivoltella ed era puntata contro di lui.

“Sei spaventato per la pistola o perché hai scoperto qualcosa in fondo al lago? Rispondi, stupido!”

La voce della donna risuonava secca e potente.

“Io ho visto… ho visto uno scheletro!” rispose Angelo, sgomento.

“Certo, cervellone! Scommetto anche che hai già capito di chi si tratta”.

“E’ Nora Lamberti”.

“Bravissimo. E’ o meglio era Nora Lamberti, la donna che mi portò via il mio compagno, quel rottame umano che oggi ti ha fermato e ha parlato a lungo con te. Credevate che non mi fossi accorta di nulla?”

“E’ stata lei ad ucciderla?”

“Secondo te?”

“Già, è stata lei, la capoccia della cittadina, quella che tutti temono e che vogliono ingraziarsi per ottenerne dei favori:”

“Sei perspicace. Questa comunità è sempre stata sotto il dominio della mia famiglia e io sono molto rispettosa delle tradizioni. Quella cantantucola non era nemmeno nata da queste parti, e pensava di portarmi via Cesare. L’ho servita per le feste spingendola in acqua. Che buffa! Non sapeva neanche nuotare! Mi ha risparmiato la fatica di spararle.”

“Adesso invece è a me che vuole sparare. Come giustificherà il mio omicidio?”

“Semplice. Racconterò a tutti che sei dovuto partire in tutta fretta per dei gravissimi motivi familiari e nessuno dubiterà della mia parola. Se verrà aperta un’inchiesta non ci vorrà molto affinché si chiuda.”

Angelo si sentiva perduto. Non era un uomo d’azione e l’acqua gli impediva molti movimenti.

Un fragore improvviso alle sue spalle richiamò la sua attenzione. Lo scheletro era risalito in superficie e ora fronteggiava la Cesti, che emise un grido mentre la rivoltella gli cadde a terra. Lo scheletro aprì la mandibola e Angelo percepì una sorta di infrasuono. Le orecchie della Cesti erano percosse, violentate, da una nota talmente acuta che il suo udito non riusciva a sopportarla.

Dalle orecchie e dalle tempie della criminale cominciò a sgorgare il sangue, che le scendeva copioso lungo le guance. La Cesti gridava impazzita dal dolore mentre Angelo assisteva immobile alla scena. La donna si portò ancora le mani sulla testa poi si accasciò. Lo scheletro richiuse la mandibola poi scivolò lentamente sotto il pelo dell’acqua. Nora Lamberti era riapparsa per emettere il suo ultimo acuto.

Angelo si scosse, guardò il cadavere della Cesti, quindi si voltò in direzione del punto dove era scomparsa Nora Lamberti. Si chiese se qualcuno avesse potuto assistere eventualmente alla scena, ma si rassicurò subito, sicuro del fatto che nessuno avrebbe osato raccontarlo.


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Il Seppellitore

Sono un professionista: seppellisco sentimenti. Sì, esatto, avete capito bene: sentimenti.

Ho iniziato per caso, senza uno scopo preciso, solo per rimediare ad uno stato d’animo irrequieto dove c’era sempre qualcosa che mi disturbava, mi provocava improvvisi sbalzi d’umore e la mia analista continuava a ripetermi di non abbandonare la cura. Secondo lei solo i farmaci avrebbero potuto migliorare il mio stato di salute.

Ma io non l’ho ascoltata, ho voluto fare di testa mia ed ho rinunciato definitivamente ad assumere quelle porcherie che mi offuscavano il cervello e mi impedivano di pensare e riflettere in maniera lucida.

E cazzo, finalmente ce l’ho fatta!

Non c’è stato un preciso evento scatenante, forse è la somma di diverse componenti che mi ha condotto a questo. Comunque ne ricordo uno in particolare.



E’ da un pezzo ormai che sto osservando, quasi di nascosto, una triste scena d’addio: i protagonisti sono un ragazzo ed una ragazza che si stanno salutando sul binario a fianco al mio.

Guardone mio malgrado, comodamente seduto in una carrozza di prima classe di un intercity di ritorno da Milano. Le luci tenui del colore di una sera di settembre rendono l’atmosfera ancora più triste e mi si stringe il cuore mentre loro si baciano. Lui sorride accovacciato appena sopra gli scalini del vagone e lei lo bacia teneramente, aggrappata alle maniglie della portiera, quasi non volesse lasciare partire quel treno. Potrebbe l’amore di una ragazza bionda e minuta fermare tutto ciò? Sembra che il loro dirsi addio sia doloroso solo per me. Sembra. Poi lei deve scendere e vengono chiuse le portiere. Ancora un saluto che io non posso udire. Il treno parte e c’è qualcosa che mi rende testimone privilegiato di un evento che il ragazzo, forse, non saprà mai: mentre il treno si allontana e la ragazza se ne sta andando nella direzione opposta scorgo sul suo viso due rivoli di lacrime che rifiutano d’asciugarsi. Odio gli addii.



Finalmente ho capito e sono giunto ad una conclusione: sono i sentimenti che offuscano i pensieri. Odio, amore, invidia, pentimento, rancore, compassione, gioia si evolvono così in fretta nel corso della vita ed io non riesco a gestirli, a controllarli come vorrei, quindi ho iniziato a seppellirli.

Concentrarsi ed alla fine distaccarsi sistematicamente da ognuno di questi porta alla condizione ottimale di libertà: non provando alcun sentimento non sarò più confuso e sottoposto ad alcun dolore o delusione. Li sradico uno ad uno e li seppellisco.

Che cosa diventerò? Se procedo di questo passo non lo so neanch’io. Le prime volte è stata veramente dura. Col tempo ci ho fatto il callo e adesso mi sento vicino alla conclusione come non mai. Mi manca solo tanto così!

Venite pure avanti adesso, non mi toccherete, non mi potete più fare nulla perché non sento nulla. Anche nella mia testa qualcosa sta cambiando: ho degli strani rallentamenti, tutto si muove a rallentatore attorno a me, i colori ed i suoni mutano in continuazione. Mi sto allontanando dalla vostra realtà per raggiungerne un’altra dove tutte le vostre cazzate non hanno alcun senso.

Vi vedo e vi incontro ogni giorno, intrisi dei vostri fastidiosissimi sentimenti, vi raccontate fandonie e poi le rielaborate, le manipolate per modellarle ed adattarle al vostro mondo di pie illusioni.

Io non provo odio.

Non provo compassione.

Non provo pentimento.

Non provo rancore.

Non provo tristezza.

Non amo.



Forse non sono nemmeno più umano.



Curo la mia collezione di lame (chiamo così i miei pugnali ed i miei coltelli); una collezione niente male di “Gerber”, “Extrema Ratio”, “Wilkinson”. Solo loro non tradiscono mai, nutro un’eccezionale fiducia nella durezza dell’acciaio ATS-34.

Mentre osservo il metallo noto piccole macchie che non dovrebbero esserci. Flash improvvisi disturbano la concentrazione. Le pulisco con maniacale accuratezza ma loro riappaiono periodicamente. Non capisco.

Dal punto in cui mi trovo non serve assolutamente lanciare funi di salvataggio che non sarebbero in grado di trascinarmi in un porto sicuro. Sono e voglio restare in balìa del vortice che mi sta consumando.

Ma perché queste cazzo di macchie non se ne vogliono andare? E frego più forte.

Qualcuno sta cercando di dirmi qualcosa che non sono in grado di ascoltare…

Come mai queste lame sono così sporche? Cazzo! Cazzo! Cazzo!

Strano… non dovrei provare rabbia… S R A D I C H I A M O L A. La seppellirò dopo. Se mi guardo attorno vedo quattro mura ed una stanza piena di carabattole: come ho fatto a non accorgermene? Possibile che soltanto ora riesca veramente a vedere lo schifo che mi circonda? Dove sono stato tutto questo tempo? Che cosa ne ho fatto di ciò che avevo? Ma cosa avevo?

Le macchie resistono… E non ricordo di averli usati.

Nulla. Non ho mai avuto nulla e non me ne sono mai accorto. Per tutto questo tempo non ho vissuto, ecco perché non ricordo. Nasco adesso e sbuco dal torpore di un’esistenza di fango.

Bussano alla porta.

— Chi è? — non risponde nessuno.

Alcune volte i vecchi vengono a bussare alla mia porta. Vogliono sempre qualcosa. Altre volte vogliono solo rompere. Soffrono di disturbi psichici da alcuni anni, non so più quanto, e nessuno li vuole accudire. Tocca a me sopportarli.

Te li trovi a tavola che biascicano, scoreggiano e ruttano ed alle volte dimenticano persino di lavarsi. Li devo lavare io, ma non sempre posso farlo, ho anche altre cose da fare e non riesco più a trovare un cazzo di badante che li sopporti!

— Perché non li metti in una casa di riposo? — mi ha detto qualcuno. Io mi sono passato tutte le case di riposo ma non li hanno voluti.

Bussano alla porta.

— Chi è? — non risponde nessuno.

Questo scherzo comincia a rompere. Sono le undici e dieci di sera. Quei cazzoni dovrebbero già essere a letto…

In effetti non sento rumori, tranne quelli ovattati che provengono da giù in strada. Sarà una mia impressione.

Eppoi litigano sempre, urlano e sbraitano per un nonnulla e non si ricordano nemmeno il perché.

Ora rimango per delle ore in assoluto silenzio a fissare un qualsiasi punto di qualsiasi parete. Sono i pensieri che mi tengono compagnia. Vanno e vengono, fluidi e lenti, non li fermo.

Se c’è una cosa a questo mondo che mi fa imbestialire è il caos. Ma, un attimo… io non dovrei arrabbiarmi! Se sono ancora capace di provare rabbia allora significa che qualcosa non sta funzionando per il verso giusto. Devo provvedere alla svelta.

Esco dalla stanza con in mano un’ascia dal manico lungo ed apro la porta della loro stanza. La fetta di luce che proviene dal corridoio è sufficiente ad illuminare il letto dove stanno dormendo. Alzo la mannaia ed inizio a sferrare i colpi uno dopo l’altro con forza e velocità tali che non fanno nemmeno in tempo ad accorgersi di ciò che sta accadendo. Osservo i corpi sussultare in silenzio quando ossa e tendini vengono recisi dai fendenti. L’odore del sangue è intenso e lenzuola, coperte e cuscini sono una grande macchia scura che confeziona rimasugli di arti e brandelli di carne rossa.

Mi fermo perché sono stanco.

Esco con in mano la scure ed attraversando il corridoio incontro un volto sfigurato grondante sangue che si riflette in uno specchio. Due bagliori azzurri emergono spenti da quello scempio.

— Mio Dio!

Fuori nella terrazza mi attende la luce giallastra del sole freddo di un mattino appena iniziato. L’aria di fine estate ha un effetto calmante.

Il mio nome, come la mia vita, sono scritti nell’acqua: un leggero soffio e tutto s’increspa. Ci sarà qualche immagine sbiadita che mi accompagnerà, poi non sentirò più nulla. Il mio compito è finito: un balzo e via. Finalmente sono libero! Ma non sono più un uomo… sono un mostro.


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LOCULI

E’ accaduto molti anni fa, eppure ancora adesso…

Con un fazzoletto avevo tolto la patina di polvere dalla foto ovale, ed ora i suoi occhi sembravano sorridermi.

“ Ma lo sai che sei molto bella tesoro? “ le dissi, poi chiusi gli occhi ed attesi la risposta.

Tirava un lieve vento che sapeva d’incenso.

< Ma porcaccia la miseria!!! >

Sussultai e subito mi voltai. Volevo proprio vedere chi era l’importuno che aveva spezzato in modo così prosaico l’incanto di quel momento. Si trovava ad una ventina di metri da me. Si trattava di un ometto di una certa età con la giacca un po’ lisa, i baffi sottili sopra il labbro come andavano una volta, sopraccigli cisposi e due occhi eccezionalmente vispi.

Tormentava il cappello tra le mani.

Vedendomi mi fece un cenno:

< Oh signore, venga… venga la prego! Giudichi con i suoi occhi e poi mi dica se le sembra una cosa ben fatta. >

Indicava, sul colombario di fronte a lui, un loculo di terza fila.

Mi avvicinai incuriosito. Devo ammettere che quel che vidi, pur non essendo niente di straordinario, mi scosse.

Si trattava di un loculo sul quale non era stato posto il marmo.

Il nome del defunto, EMILIANO MELI, era stato sgraziatamente graffiato sulla ruvida malta con un chiodo.

Non c’era altro: ne un fiore ne un qualsiasi altro segno dell’umano cordoglio.

< Me lo dica lei se le sembra una cosa ben fatta! > disse. < Pensi, oggi fa un anno e loro non si sono ancora curati nemmeno di mettere un marmo. >

< Un anno? > chiesi.

< Ma certo, un anno… Dalla sua dipartita intendo! >

Lo ascoltavo allibito. Ed un po’ anche divertito. Sotto tutta quella indignazione a stento repressa avevo creduto di intravedere un carattere dalla indole mite.

Continuava a rigirare il cappello e notai le sue mani nodose, da persona che non si era certo risparmiata…

< Vedete > disse, cercando di controllare la voce < una tomba ben fatta… non dico che serva, eppure… Non potete immaginare quanto lui ci avrebbe tenuto! >

< Perché ? > chiesi.

< Sarebbe stato un segno di riconoscenza, di gratitudine. Dovete sapere che questo uomo li ha amati, li ha amati tutti, ed ad ognuno di loro ha voluto lasciare qualcosa di se. >

< Capisco > dissi.

< Ed io penso invece che forse voi siete ancora troppo giovane per poter veramente capire. >

Lo aveva detto senza malevolenza, e senza quel impeto che lo aveva contraddistinto sino a quel momento.

Si rimise il cappello, mi salutò con un cenno e si avviò.

Rimasi a fissare il loculo con quel nome, EMILIANO, malamente graffiato.

Scossi la testa. Dovevo riconoscere che il vecchio aveva ragione: non si trattava di una cosa ben fatta.

Ma c’era dell’altro. Qualcosa di ancor più profondo ma che non riuscivo ad afferrare.

Quel vento profumato d’incenso m’investì nuovamente. Era lieve come una carezza.

Ed all’improvviso compresi.

“ Amore dimmi che sono pazzo” sussurrai. Ma non attesi risposta e mi lanciai all’inseguimento di quello strano ometto dalle mani nodose e la giacca lisa.

Ben presto gli fui alle spalle.

< E’ vero > dissi. < Sapete? Avevate ragione voi. >

Avevo quasi gridato ma lui continuò a camminare come se non mi avesse sentito.

< Ho detto che avevate ragione voi > ripetei, < non è giusto quello che hanno fatto, assolutamente non è una bella cosa. >

Proseguiva a camminare come se io non esistessi.

Dentro me continuavo a ripetere “ sei pazzo, sei pazzo… “ , ma c’era quella cosa che dovevo dirgli e sapevo che dovevo assolutamente farlo.

Infine trovai il coraggio.

Parlai con una voce che non mi riconoscevo, come quando si è brilli.

< Quello che vi sto dicendo è che non bisogna mai trattare in questo modo i nostri cari estinti… , assolutamente mai…, signor Emiliano. >

Ecco, lo avevo detto.

Fu solo allora che si fermò e si voltò verso di me.

Ed io potei vedere.



E’ accaduto molti anni fa eppure ancora adesso l’infinita dolcezza che mi parve di cogliere sul suo sguardo consola il mio cuore come una lieve brezza di primavera.


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La tomba

Siamo nell’anno del Signore 1918, e bisogna ancora credere nei mostri!

Io mi sono trovato invischiato in un’orrenda situazione, ne sono rimasta vittima, e ora i miei nervi mi stanno abbandonando la mente e le membra.

Ho quarant’anni, almeno credo, non rammento più. Prima ero in guerra, credo che l’abbiano nominata La Grande Guerra, interessa quasi solo l’Europa, ma ho sentito che altra gente ha voglia di venire a farsi massacrare con noi. Noi…non ricordo più cosa sia “noi”, forse gli amici, i parenti, ho solo un vago ricordo di queste parole, quando le tiro fuori da quell’oscuro buco che è la mia memoria, vengono subito collegate a facce sorridenti di uomini e donne, di sole, di strade, di…non riesco più a ricordare. Mi ricordo bene solo due cose: il mio ferimento, e il posto lurido e maleodorante in cui sono stato rinchiuso, forse per l’eternità. La data la ricordo solo perché collegata al mio ferimento, ma ora ho perso da molto tempo la nozione del tempo, qui non esiste la luce del giorno o della luna.

Il mio nome mi è sconosciuto, ma penso, di provenire da un paese di nome Francia. Combattevo non so dove nel nome della Francia, contro un nemico che si chiama Gergagnia, o Germania; ci avevano insegnato ad odiarla, dovevamo uccidere tutti loro, e anche i loro alleati. Noi avevamo molti alleati, ma non eravamo forti abbastanza, e ci stavano massacrando con robe tossiche, che ti uccidono con convulsioni e soffocamento, e le maschere erano poche.

Io ero in buona salute, e così fui mandato al temuto fronte. In buona salute, ma per quel che ricordo, non sapevo nemmeno tenere uno di quegli arnesi che lanciano palline dure.

Ero in una lunga buca scavata con le pale, penso siano le trinchee, e si vedeva ovunque fumo e pezzi di corpi, anche bruciati, l’odore era nauseante, e avevo fame e sete. Poi arrivò della gente, miei amici credo, che ci incitò a correre addosso al nemico con i grossi cosi corazzati che sparavano palle enormi che ci stavano a fianco.

Anche dalle zone davanti a me arrivavano uomini e cosi corazzati che sparavano. Il rumore era assordante, e quando mi girai a chiedere qualcosa all’uomo che mi aveva urlato di andare avanti, trovai solo il suo braccio per terra con una grossa buca lì vicino. Allora cominciai a correre, e tra i proiettili che mi sibilavano sulla testa, uno mi prese una gamba, e barcollando sino a una trichea, mi buttai dentro di essa e svenni.

Poi, semi cosciente, distinsi una parla: “questo va bene”. Ma ora sembra più un sogno.

Quando mi svegliai veramente, pensai di essere morto, e di trovarmi al cospetto di Dio giacché era completamente buio. Ma il dolore alla gamba era reale, perciò mi dissi che ero vivo. Osservai il posto: non c’era luce, ed allora cominciai a tastare in giro.

Mi accorsi subito di avere un polso stretto in un anello di ferro collegato al muro tramite una lunga e pesante catena che faceva rumore ad ogni movimento del mio braccio.

Strisciando, sentii che il rumore della catena provocava un forte eco, perciò mi resi conto di essere in uno spazio grande, spogli e chiuso. Il pavimento era umido e viscido, per di più freddo. Esso era composto da grossi massi squadrati e incastrati uno vicino all’altro piuttosto rozzamente, dato che c’erano dei piccoli sassolini tra le fessure. Ne presi una manciata e tornai al posto del mio risveglio strisciando carponi. Da lì mi sedetti con la schiena poggiata al muro, e cominciai a lanciare i sassolini. Dall’intervallo del tempo che impiegavano a sbattere contro la parete e dalla potenza del mio braccio, dedussi che la lunghezza della stanza era di circa una ventina di metri, anche se ora non ricordo più quant’è un metro.

Finite queste constatazioni, cominciai a camminare lateralmente, con le mani poggianti al muro. Mi accorsi che la stanza era circolare, e i muri, come il pavimento, erano umidi e rozzamente costruiti. Tornando indietro sempre con le mani appoggiate al muro, trovai il coso di ferro attaccato al muro, in cui entrava la catena che mi tratteneva. Ad un certo punto, inciampai in qualcosa. Lanciai imprecazioni e controllai su cosa ero inciampato. La cosa su cui ero caduto si era rotta sotto il mio peso, presi in mano alcuni pezzi e li tastai. Uno di essi era leggermente tondo, con due buchi: mi accorsi che tenevo in mano un teschio. Urlai di terrore, e corsi al centro della stanza, ma la catena mi trattenne e caddi sopra un'altro scheletro, ma questa volta era frantumato, a pezzi, e sparso in giro. Urlando ancora corsi verso il muro, pestando altri scheletri e infine sbattei contro la parete viscida e svenni.

Quando mi riebbi, cominciai a ragionare: la parola ricorrente era “prigioniero”.

Ma il posto doveva essere un’antica sede di tortura medievale, o qualcosa di molto simile, dopotutto la Francia ne aveva molte di simili. Ma il motivo del perché fossi stato portato lì, mi era sconosciuto.

Bevvi un po’ di acqua, tirai ancora un po’ di sassolini. All’improvviso uno di essi sbatté contro qualcosa di massiccio. Era presumibilmente al centro della stanza, perciò mi era impossibile avvicinarmi ad esso. Tirai sassolini da una parte e dall’altra per calcolare la lunghezza del blocco con l’udito, e mi sorpresi nel constatare che era lungo almeno cinque metri, e alto tre. Mi domandai che aspetto avesse. L’unico indizio sulla sua composizione era che tirando sassi in certi punti, colpivo del vetro, che dal rumore doveva essere assai spesso. Poi cominciai a lanciare sassi in alto: per toccare qualcosa dovevo usare tutte le mie forze. Il soffitto era in parte fatto di travi, poiché quando un sasso le colpiva c’era un tonfo sordo. Allora mi feci una chiara idea di dove mi trovavo: ero in una stanza, molto rozza e umida, al centro della quale c’è un grosso blocco; non entra mai la luce, e cosa più importante è pieno di scheletri, alcuni dei quali distrutti. A quest’ultimo pensiero mi vennero i brividi pensando a come potevano essere stati uccisi quegli uomini. Ma ci doveva essere qualcuno. Qualcuno che porta del cibo.

Dopo che mi fui svegliato da un sonno di incubi, mi accorsi che mi avevano rifornito di acqua e cibo. Bevvi ancora e mangiai la carne e cominciai a girare intorno in cerca di altri indizi. Le mie mani trovarono solo ossa e vestiti rinsecchiti.

I vesti mi dettero un’idea: avrei potuto bruciarne un po’ appiccando fuoco con le scintille che scaturivano dallo sfregamento di un sasso contro la parete, d’altronde anche in guerra lo facevamo, anche se non ricordo per cosa.

Presto le mie speranze e illusioni furono amaramente sbriciolate dalla realtà: come ho già detto, le pareti erano umide e vischiose, perciò nessuna scintilla fu prodotta.

Allora mi sdraiai e attesi che il sonno s’impossessasse di me, concedendomi così una tregua.

Fui svegliato da un rumore proveniente dal centro della stanza, un rumore simile ad un cigolio, come l’apertura di un vecchi coperchio, soltanto che il coperchio in questione doveva essere molto pesante. Qualcosa stava uscendo dal blocco in mezzo all’arena. I miei occhi erano abituati al massimo a quell’oscurità e sebbene nessuno spiraglio di luce trapelasse dai muri, mi parve di scorgere una mostruosa figura uscire dal blocco e strisciare molto lentamente verso la parete. Io rimasi sdraiato, col sangue troppo gelato dal terrore persino per riuscire a svenire. Sentivo delle volte gli sbuffi della cosa, sentivo le ossa che si spezzavano sotto le sue zampe, sentivo il battito forsennato del mio cuore. Poi mi si drizzarono i capelli sentendo l’indicibile rumore provocato dalla catena mossa dal mio braccio. Ma non avvertii variazioni: la creatura era completamente sorda.

L’orrore non durò molto, infatti dopo non molto, la cosa si ritirò nel blocco molto lentamente. Poi svenni. Quando mi risvegliai, ricominciai a pensare con sangue freddo, come avevo sempre fatto sino ad allora.

Il blocco che è in mezzo alla stanza, è una tomba, ornata con vetri; dentro di essa c’è una creatura sorda, ceca e probabilmente priva d’olfatto, lo supposi dal fatto che con l’olfatto mi avrebbe già individuato. Dedussi anche che quella cosa era il motivo per il quale ero stato imprigionato lì. Dovevo trovare qualcosa per difendermi, allora cominciai a tastare bene dappertutto cercando una qualsiasi arma con la quale difendermi: la mia gioia culminò nello trovare un lungo pugnale stretto nella mano di uno scheletro distrutto. Ora avevo qualcosa con cui difendermi.

Mangiai e bevvi tutto, per essere in forze con l’inevitabile incontro col mostro.

Attesi, e infine la mia paura crebbe sentendo il cigolio. Ero solo, in un posto sconosciuto, buio e in compagnia con un misterioso essere intenzionato sicuramente ad uccidermi spinto dalla fame (sicuramente qualcosa doveva mangiare), decisi di vendere cara la mia pelle, affidandomi ad un coltello vecchio di chissà quanto, anche se non arrugginito.

Il mostro si muoveva, sempre lento, e lo sentivo venire verso di me. Mi preparai. Probabilmente il mostro doveva avere solo il senso del tatto, non facevo altro che sentire i suoi artigli toccare il pavimento, e quello del gusto, ma non volevo scoprire avesse anche quest’ultimo.

Sulla vista mi sbagliavo, infatti pochi metri davanti a me si fermò e cominciò ad arrampicarsi sulla parete. Sulla parete! Come le lucertole!

Infine giunse vicino a me a testa in giù. Era talmente vicino che potei sentire il suo alito fetido come mille carogne. Non persi tempo e pugnalai quell’abominio su quello che pensai fosse il collo. Non potrò mai descrivere il suo grido, come quello di tutti i pipistrelli e demoni di questa terra, che lanciò dal dolore. Colpii una seconda volta, ma lui si ritrasse, e non vedendo niente, detti un forte colpo alla parete, sprizzando le tanto agognate scintille che andarono a bruciare per alcuni secondi la stoffa secca, e illuminando così l’orrendo posto. Pensai veramente di essere finito all’inferno, e mi chiesi perché il Signore lasci che i suoi figli vivano certe esperienze.

Come immaginai l’ambiente era in pietra, ed era un’arena. Gli scheletri erano veramente molti, alcuni corpi erano mummificati e appesi alle pareti con le due mani, il posto era enorme, e al centro di esso si ergeva una tomba col coperchio aperto, essa era ornata in modi incredibili, c’erano figure mostruose, simboli in cristallo e altri ornamenti; la tomba era ispirata al terribile gotico, con punte rivolte verso l’alto, e sporgenze ai lati.

Ma la cosa peggiore era l’essere che mi si parava davanti e agitava le grottesche caricature di quelle che dovevano essere delle braccia: i suoi occhi erano bianchi, con una minuscola pupilla nera, erano sempre spalancati, e odiavano la luce. La pelle putrida era di un colore marrone marcio, ed era cascante sul collo, ma la vera cosa impressionante era la stazza e la testa: il corpo era poderoso, muscoloso e magro, con le ossa in evidenza; la testa somigliava a quella tipica allungata di un’animale simile all’uomo, penso che si chiami gorilla. Le orecchie erano due buchi nella testa, e le labbra del muso allungato erano tirate e scoprivano quattro enormi canini lunghi e affilati.

Invece di svenire, o provare terrore, mi venne solo rabbia e furia vedendo che era consentito vivere ad una simile creatura. Mi lanciai verso di lei, ma essa mi morse una gamba e sentii la vita succhiata via: mi stava dissanguando. C’era ancora luce, perciò mi buttai sulla sue sesta e cominciai ad accoltellare dove pensai fossero i punti vitali, ma il mostro-vampiro mi buttò a terra e si apprestò ad azzannarmi di nuovo. Questa volta fui più veloce io, e le squarciai il petto sino al cuore. Con un rantolo la bestia cadde morta.

Svenni di nuovo per lo shock, per la perdita di sangue e per il lezzo del suo sangue immondo che mi impregnava i vestiti.

Mi sentii trasportato, spogliato e messo a giacere. Ora avverto che i miei sensi si affievoliscono sempre di più, il mio corpo stà cambiando, ho perso i denti, ma penso che verranno rimpiazzati da ben altro. Presto la mia mente sarà soppiantata dall’animale che stà nascendo in me, e finirò per strisciare fuori dalla tomba in cerca dell’uomo scalciante e urlante che avevo sentito qualche tempo fa.


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