sabato 20 aprile 2024
Racconti Nostalgici

Ricordi del mio asinello di nome Bijì

Mio padre, che ha 87 anni, mi ha raccontato di quando era bambino e aveva un asinello di nome Bijì.

"Quando avevo sette anni la mia famiglia abitava in una casa con un ampio giardino in cui vi erano molti fruttiferi, un apiario e una tettoia nella quale alloggiava una capra. La casa era nella periferia della città. Infatti, proseguendo nella strada si trovavano orti, frutteti, oliveti ed una azienda zootecnica la cui proprietaria si chiamava Signora Candida.

Questa era una bella donna, alta, magra, altera e vestiva il costume del suo paese. Aveva una bellissima voce, tanto che nelle feste paesane andava a cantare in dialetto sardo. Aveva alcuni cavalli da corsa, una decina di cani, molte galline e anitre.

Abitava in un grande caseggiato con un ampio piazzale al centro del quale vi era un pozzo, assai profondo, in cui scorreva un ruscello che in gergo veniva chiamato "dragonaia". Il terreno circostante, di molti ettari di superficie, era coltivato parte ad oliveto, parte a frutteto e parte lasciato a pascolo.

Un giorno mio padre mi disse: "Devo andare dalla Signora Candida, vieni anche tu."

Quando entrammo nel cancello che distava un centinaio di metri dal fabbricato rurale una valanga di cani ci venne incontro, abbaiando e ringhiando rabbiosamente. La signora Candida, a sentire tutto quel baccano, si affacciò alla porta della sua casa, fece un fischio i cani d’un tratto si ammutolirono e ci lasciarono passare.

Quando arrivammo nel piazzale vidi un carro trainato da due grossi buoi dal mantello rosso al quale era legata un’asina di razza sarda, quindi di bassa statura, che aveva vicino un asinello piccolo, al massimo di un mese di età. Era molto grazioso e aveva il mantello di colore grigio con la croce nera sulla groppa e due orecchie lunghe.

Mentre mio padre parlava con la Signora Candida io mi avvicinai all’asinello che, molto docile, si fece accarezzare. Quando mio padre mi chiamò per andare via mi separai da lui con gran dispiacere.

Arrivato a casa raccontai alla mia mamma dell’asinello che avevo visto.

Ad un certo punto mi affacciai al portone e vidi il carro trainato dai buoi che veniva giù lentamente portandosi dietro l’asina e l’asinello. Chiamai mia madre e mentre anche lei lo osservava mi venne un’idea brillante.

Dissi a mia madre: "Dì a quell’uomo che guida il carro se ci dà l’asinello in cambio della capra."

Mia mamma, per accontentarmi, disse: "Quell’uomo, mi dà quell’asinello in cambio di una capra?"

L’uomo fermò il carro, entrò nel giardino, si avvicinò al box dove era la capra, la guardò, la tastò e disse: "Affare fatto!" Prese la capra e la legò dietro al carro, poi prese in braccio l’asinello e lo depose dentro il box al posto della capra. Ci salutò, risalì sul carro e ripartì.

Io non credevo ai miei occhi, mi sembrava di sognare, continuavo ad accarezzare quella povera bestiolina che avevo privato della sua mamma. Ero tanto felice che se i miei genitori me lo avessero permesso lo avrei portato a letto con me.

Per un po’ di giorni quel povero asinello ragliò chiamando al sua mamma. Poi la dimenticò e mi si affezionò tanto che mi seguiva come un cagnolino in qualsiasi posto andassi.

Ricordo che lo portai a far parte di un presepio vivente che un amico di mio padre fece nel suo appartamento al quarto piano, al centro della città. Verso le due di notte, quando andammo a riprenderlo, passando davanti a un bar vi entrammo e lui tranquillamente passava da un tavolino all’altro mangiando le paste che gli avventori incuriositi gli offrivano.

Lo portai anche a scuola per farlo vedere alla maestra e ai miei compagni.

Quando raggiunse l’età di tre anni mio padre gli fece costruire un calessino su misura e i finimenti da un sellaio. Lo domammo e divenne un ottimo trottatore. Così mio padre, che era impiegato di banca, ma nel tempo libero si dedicava all’apicoltura, anziché andare a piedi a visitare gli apiari che aveva nelle campagne intorno alla città, andava in calessino.

Bijì, anche crescendo, si era mantenuto sempre docile. Però al mondo nessuno è perfetto e anche lui aveva due piccoli difettucci. Il primo: quando mangiava non voleva essere disturbato. Se ci si avvicinava, grugniva e calciava. Noi però lo sapevamo e non lo disturbavamo.

Il secondo: quando il calessino percorreva una strada che ad un certo punto si biforcava poteva essere un problema. Se dovevamo girare a destra e lui aveva deciso di girare a sinistra si impuntava e allora era necessario ricorrere alla frusta per metterlo sulla giusta via.

Trascorsero così sei o sette anni. Bijì, pur rimanendo basso di statura, si era ingrossato ed era diventato un bell’asino.

Nel frattempo mio padre aveva aumentato il numero degli apiari anche se aveva sempre poco tempo a disposizione per andarli a visitare. Così decise di sostituire l’asinello con un cavallo che era più veloce. Comprò infatti un bel cavallone alto e snello che sembrava un cavallo da corsa. Fece allungare le stanghe al calessino e il mio asinello Bijì rimase senza lavoro.

Con mio gran dolore, un giorno decise di darlo a un suo amico che aveva un’azienda orticola. Questi adibiva Bijì, attaccato ad un carretto, al trasporto degli ortaggi al mercato e al trasporto del letame dalle stalle, che a quel tempo erano molto diffuse entro al città, fino agli orti.

Per quanto mio padre avesse raccomandato al suo amico di non disturbare Bijì quando mangiava, gli operai che lavoravano nell’azienda, ogni volta che questi manifestava il suo malcontento quando era disturbato, grugnendo e calciando, lo riempivano di botte.

Quella povera bestia cominciò così ad intristirsi.

Un giorno venne a casa un operaio mandato dall’amico orticoltore per dirci che l’asinello stava male.

Corsi all’azienda e lo trovai disteso per terra. Lo chiamai: "Bijì, Bijì, Bijì!!".

Lui riconobbe la mia voce e alzò la testa. Feci in tempo a prendergliela fra le mani che esalò l’ultimo respiro. Quando mi resi conto che era morto cominciai a piangere e così continuai fino ad arrivare a casa.

Sono trascorsi quasi sessanta anni eppure nel mio cuore, in un angolino, il mio asinello Bijì, che mi diede tanta felicità, è sempre vivo.".

Quando mio padre ha finito questo racconto l'ho guardato: i suoi occhi erano pieni di lacrime.


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Il ladro e la vecchia signora

L’anziana signora strappò le erbacce, ripulendo la tomba del marito. Come era sua abitudine, e spesso accade a chi vive solo, parlò fra sé, ma rivolgendosi al defunto.

"La settimana scorsa non sono venuta perché c’erano i ragazzi. Sai come sono i ragazzi… Mi ci sono voluti due giorni per rimettere a posto la casa. Non voglio dire che non mi faccia piacere avere la nostra Marilena, suo marito… quei quattro diavoli scatenati… sono tanto cari… Il più grande ti somiglia oh, come ti somiglia…"

Una spolveratina al ritratto del povero marito, così come avrebbe carezzato il viso di un bambino. Con tenerezza.

"Ti ho portato le ortensie, le ho raccolte in giardino, ne è tutto fiorito. Ti piacevano tanto… Sono riuscita quest’anno ad ottenere un colore così intenso, come non avrei mai sperato, da esposizione".

Prese il vaso, cioè non proprio un vaso, ma un barattolo di latta, perché i vasi che aveva portato da principio, non li aveva più ritrovati. Tolse quindi dal barattolo i fiori secchi e si avviò verso la fontana per cambiare l’acqua. Sulla tomba restarono il fascio di ortensie di un colore turchino mai visto, la borsetta, gli incredibili e antiquati guanti di pizzo. Come altre volte, il cimitero era deserto, sembrava deserto.

Quando tornò, vacillò un po’ sostenendo il peso del grosso barattolo arrugginito colmo d’acqua. Fece appena in tempo a posarlo sulla tomba prima di accorgersi del furto, altrimenti, è quasi certo, si sarebbe versata l’acqua addosso. Fu come una mazzata sulla testa, restò stordita. Girò intorno alla tomba, ancora incredula. Cercò con gli occhi in lontananza perché, tanto distante in pochi minuti, quel ladro non poteva essere andato.. Arrivò addirittura a prendersela col povero marito nella tomba.

" Non potevi avvertirmi in qualche modo?"

Si torse le mani disperata, ricordando che non le erano rimasti nemmeno i soldi per il biglietto dell’autobus e, dal cimitero fino a casa, c’erano almeno tre chilometri. Era così fuori di sé che sedette sulla tomba ad aspettare che le si calmasse l’affanno. Le mani le si agitavano nervosamente in grembo.

Si riprese alla meglio e dispose le ortensie nel barattolo. Il colore di quei fiori prediletti, adesso, le sembrava spento.

"Che delusione, la vita. Stai certo meglio tu, là dove sei, al di sopra di queste meschinità. Non è tanto per quei pochi soldi che avevo nel portamonete, magari giusti per arrivare in fondo al mese, quanto per i documenti, le fotografie di Marilena con i ragazzi, il portachiavi che mi regalasti tu… Le chiavi… Menomale che, dopo quella volta che rimasi chiusa fuori casa e dovetti fare scassinare la porta, tengo un’altra chiave fra le foglie dell’aspidistra sul pianerottolo…"

Sospirò e s’impose di non piangere perché, per l’appunto, senza la borsetta, non aveva nemmeno un fazzoletto.

***

La camminata l’aveva così stancata che dovette distendersi sul letto: diamine non era più una ragazzina e poi con quell’agitazione in corpo!

Pensò che doveva sporgere denuncia, ma l’idea di dover uscire di nuovo per raggiungere il commissariato e poi raccontare, spiegare e fare la figura della sprovveduta, la scoraggiò. Più tardi, o domani, si disse che tanto ormai, il ladro chissà dove era finito.

Lasciò la casa in disordine, non soltanto per la stanchezza, ma anche perché non riusciva a concentrarsi in niente. Sbocconcellò qualcosa e dopo tornò sul letto. Dovette rialzarsi perché squillava il telefono.

"La signora Martini?"

Era una voce d’uomo un po’ roca, come piuttosto lontana.

"Sono io, chi parla?"

"Non so come dirlo… mi vergogno…"

"Non capisco, chi parla" si agitò

"Per piacere, stia calma, non voglio spaventarla. Sono quel disgraziato che le ha rubato la borsa poche ore fa"

Questa volta la poveretta non trovò parole, attraverso il filo del telefono le parve quasi di poter acciuffare il ladro ma, più che ascoltare, non poteva. La voce, perché altro non era che una voce probabilmente contraffatta, stava dicendo: "Lei certo non mi crederà, ma voglio dirle tutto. E’ la prima volta che faccio una cosa simile. Non sono un ladro, almeno non lo ero mai stato fino ad oggi. Mi ci hanno portato le circostanze. La disperazione. Sono vedovo da due anni, ho un bambino di nove anni. Ho visto che lei ha foto di bambini, sa quanto sono importanti i bambini e quanto gli si vuol bene… Io sono disoccupato e ora il bambino si è ammalato, solo una bronchite, niente di grave, ma ha la febbre alta e gli ci vogliono gli antibiotici… Stamani ero andato alla tomba di mia moglie… è stato un attimo… la sua borsa stava là… Oh.. lo so bene che non mi può credere, ma… ho usato solo i soldi per le medicine, gli altri non li voglio, mi bruciano le mani, voglio restituirglieli subito con tutto il resto. Quelli spesi glieli farò avere appena potrò. Verrei a casa sua, ma ho paura d’essere visto… non tanto da lei quanto da altri. Certo avrà denunciato il furto…"

"No, stavo per farlo quando lei ha chiamata"

Finalmente aveva ritrovato la voce, incrinata dalla commozione e invece avrebbe voluto mostrarsi risoluta. Era una donna dal cuore tenero e sensibile, di quelle che piangono davanti alla Tv quando viene trasmesso un film vecchio di trent’anni.

"Non mi denunci, signora, per carità".

Doveva essere davvero sconvolto per dimostrarsi così spaventato.

"Se lei mi restituisce e mi dimostra quindi d’essere sincero…"

Ma chi poteva denunciare, se non l’aveva nemmeno visto in faccia? Un denuncia contro ignoti semmai, niente di più.

"Non posso portarle la borsa a casa, cerchi di capirmi… Gliela lascio dove l’ho trovata"

"Al cimitero?!"

"Sì, domattina, all’ora di stamani"

"Va bene. Aspetti… pronto"

E aggiunse, prima che lui riagganciasse: "I soldi già spesi li consideri un regalo per il suo bambino"

L’uomo con voce rotta: "Lei è troppo buona. Lei è una santa"

La signora Martini, finita la telefonata, pianse per la commozione e forse anche per lo sfinimento. Tuttavia si sentiva più serena, come appena uscita da una pagina del libro Cuore.

***

Mentre imboccava il vialetto fra le tombe, sentì passi affrettati verso l’uscita, di qualcuno che se ne era stato nascosto fino allora. Si voltò e riuscì solo a vedere un impermeabile inadatto alla stagione. Si diresse alla tomba del marito. Prima ancora di arrivare, vide la borsa. Avvertì una vampata di emozione.

"Signore, che cose possono accadere a questo mondo!"

Chiese mentalmente scusa all’anima del defunto, per averlo in un certo senso, ritenuto, sia pure indirettamente, responsabile dell’accaduto. Aprì la borsa, controllò, c’era il denaro residuo, il pover’uomo aveva sottratto solo quello che gli occorreva per il figlio.

Certo anche quanto era rimasto gli avrebbe fatto comodo… Dopo quella prova, sentiva comprensione più che compassione. Si sentì rasserenata al punto che le dispiacque non aver portato fiori freschi per il defunto, perché notò che le ortensie del giorno prima già cominciavano ad avvizzire.

Cambiò loro l’acqua e, per quanto fosse più scomodo, tenne la borsetta al braccio nel tragitto fra la tomba e la fontana e viceversa. Una volta va bene, due son troppe!

***

Dalla denuncia contro ignoti risultò che l’appartamento della signora Martini, vedova di settant’anni, era stato visitato dai ladri mentre la donna si trovava al cimitero a pregare sulla tomba del marito. Le avevano sottratto un milione di lire, in fogli da diecimila, che lei custodiva dentro una busta nel sottofondo di un cassetto, risparmi di due anni che non si era ancora decisa a versare sul libretto bancario, un anello, una collana, alcuni altri oggetti d’oro il cui valore complessivo raggiungeva circa due milioni, forse meno, forse più. Infine un servizio di posate in argento massiccio , caro ricordo di famiglia.. Nessun riferimento all’episodio che aveva preceduto il furto, solo un cenno al fatto che la serratura non era stata scassinata: i ladri dovevano essere entrati con la chiave.

Quale? Quella nascosta fra le foglie dell’aspidistra o la copia dell’altra, quella rimasta nelle mani del ladro per ventiquattro ore? La signora Martini rivolse questa domanda più volte, soltanto a se stessa. Con altri non si confidò. Ne aveva sofferto troppo e poi sarebbe stato inutile parlarne. Non si sarebbe mai perdonata l’ingenuità e la credulità. Non avrebbe mai perdonato al ladro, più che il furto, d’essersi preso gioco di lei. Per quei pochi anni che ancora le restavano da vivere, per lo meno in buona lucidità mentale, avrebbe tentato di convincere se stessa che in realtà i ladri erano stati due, sconosciuti l’uno all’altro, dando credito alla sincerità del primo e alla validità dei sentimenti umani.

Riuscì a crederci ad un certo punto, ma ahimè ci riuscì quando, ottantacinquenne, sorda e quasi cieca, non fu più in grado di mantenere un segreto. E sempre più spesso le accadeva di riparlare di quel fatto ormai vecchio di anni. E non capiva, non ammetteva che i nipoti, ormai uomini, potessero ridere di lei, senza rispetto.

E ne soffriva.


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Mi ricordo.

Lo potevi trovare li', al solito angolo della piazza, lo sguardo
sospeso, oscillante ai margini di un pensiero che pareva materializzarsi in una
nuvola di passaggio o nel lieve fruscio delle ali di un gabbiano
stagliato contro l'azzurro del cielo d'agosto. L'ombra della sua figura, esile
e diritta, si allungava al tramonto proiettandosi verso gli arabeschi
della cattedrale che gli si ergeva imponente di fronte e dalla cui rossa
cupola del campanile antichissime campane annunciavano l'ora del vespro
fin lungo la vallata ai piedi della montagna disseppellendo
quotidianamente millenari silenzi. Me lo ricordo cosi' Filippo. Filippo il
pazzo, Filippo lo stolto Filippo senza un venerdi'; lo andavo a trovare tutte le
mattine prima di recarmi a scuola, dividevo con lui il pane imburrato
ancora caldo che mia madre mi preparava.
E poi zu'Saro il cacciatore, con quella virgola di toscanello perennemente acceso sulle labbra il cui fumo sembrava prender forma ora in un'orecchiuta lepre, ora in uno scaltro germano per poi dissolversi sopra il velluto della coppola grigia nella penombra dell'alba appena pronunciata.
Tano e Maria, mano nella mano, innamorati da sempre con quell'inquetudine
addosso di volersi bene, alla ricerca di un lavoro che gli desse da
vivere e di un sogno chiamato matrimonio destinato a svanire con lo
sfiorire dei loro anni.
Padre Cana', il parroco. Quella sua lunga tonaca nera che non cambiava
mai, ad ogni anno sempre piu' lacera, piu' povera. Non lo diceva, ma era un
modo per sentirsi piu' vicino alla nostra miseria, la miseria dei suoi
fedeli che tutte le domeniche riempivamo la sua chiesa in quegli abiti
logori e rattoppati, di speranze e sospiri. Me lo ricordo le notti di Natale
quando quel nero della tunica gli moriva in un'armadio della sacrestia
per rinascer negli scintillanti colori del nuovo abito talare e, a
mezzanotte, nel bambin Gesu'.
Alfredo, lo scrittore. Tutto il giorno a lavorar nei campi, schiena
abbassata sulla nuda terra col sole il vento il gelo e lo scirocco che gli
si posavan addosso a ricordargli gli anni e le stagioni, e poi a sera
quel suo correr a casa a intinger la penna nell'inchiostro per
scrivere, fino a notte, storie d'amori antichi e di guerrieri, di castelli lontani
in terre di nessuno. Scriveva finche' l'alba non lo sorprendeva
assopito, al fioco baluginar d'una candela, a sognar quei tempi andati.
Fantasmi del passato, ombre di fumo grigio che han sempre stentato a
riflettarsi sugli specchi della mia memoria ma che adesso su questo treno
che mi riporta in quei luoghi, a casa, sembran ritrovar consistenza, forme e colori che sbiaditesi nell'incantesimo di un oblio si risvegliano lentamente in un lungo abbraccio ricolorandosi di vita, il giallo al sole, l'azzurro al cielo, il nulla al vento. E son gia'quarant'anni da quando son partito. Se chiudo gli occhi posso ancora sentire il rauco ragliar sui binari che il treno lasciava mentre si allontanava dalla stazione, dalla mano di mia madre tesa al cielo, sempre piu' lontana, da quel mucchio di case raggruppate ai piedi della montagna strette strette tra loro come in cerca di calore, dal mio passato.
E adesso e' gia' presente. Mi torna in mente mio nonno, io bambino sulle
sue ginocchia e lui, gia' vecchio e malato, con la mano sinistra aperta
accanto alla mia indicar con l'indice una lunga piega su quel palmo
calloso: "la vedi questa? e'la linea della vita, sono i miei anni, son tutti qua
e adesso "indicando un punto dove la linea s'interrompeva" e adesso son
finiti, non me ne spettano piu', e 'come il corso di un fiume che scorre
lungo una vallata, maestoso e prorompente, poi pian piano l'acqua comincia
a diminuire, il fiume diventa sempre piu' piccolo, scorre sempre piu' lento. Tenta di arrivare fin verso il mare ma non ci arrivera' mai perche' nel frattempo e'gia' diventato un ruscelletto, e poi un filo d'acqua che bagna appena il sentiero e io sono agli sgoccioli" diceva chiudendo la mano indicando con gli occhi la verde persiana socchiusa del balconcino dalla quale s'intravedevano le prime rondini della primavera. "La mia vita questa e'stata, come una camminata da questa sedia a quella persiana, e non me ne sono accorto". "Nonno nonno", gli gridavo io alzando lo sguardo verso il soffito come a scrutare il cielo, "speriamo che piova presto allora" mentre il suo sguardo triste si scioglieva sull'innocenza dei miei
anni in un timido sorriso di riconoscenza.
Neanche io me ne sono accorto nonno, vorrei dirti adesso, e'stata come
una lunga danza sul filo degli anni, un volteggiar frenetico sulle note di una musica con ritmi e toni sempre diversi, dame e cavalieri che si alternano nella frenesia d'un ballo che sembra non finire mai con orizzonti di scenari che cambiano continuamente cieli, e poi alla fine, stremati,ci sediamo sull'orlo di una sottile linea che sporge in un'attimo eterno di silenzio mentre musica e luci sbiadiscono nelle nebbie ovattate dei ricordi, ci voltiamo indietro e ci rendiamo conto che e' stato
soltanto un giro di valzer.
Mio padre non me lo ricordo, mori' in guerra, in Russia che io ero ancora
piccolo. Ne conservo una foto che mia madre mi diede prima di
partire: lui disteso su un'immenso campo di grano ed io ancora in fasce tra le sue
braccia protese verso il rosso di un tramonto di una sera di giugno. Ci
voglio tornare in quel campo di grano e distendermi proprio in quel
punto li', al tramonto, voglio vedere tutto quel giallo stingersi pian piano
mentre il sole scende verso il mare e quando la lunga linea bianca
dell'orizzonte ne raccogliera' l'ultimo fremito, lo pensero', sorridendogli.
C'e' un proverbio delle nostre parti che dice: "l'albero dove si pianta
cresce". E' vero. Quando partii ero soltanto un ragazzo, avevo una vecchia
valigia di cartone con un fil di spago che la teneva chiusa, un paio di
scarpe con i sopratacchi in ferro di mio padre ed il mio nome su un
biglietto di sola andata; ho lavorato sodo, non mi son fermato un solo
istante. La notte sognavo un'immensa scalinata della quale non si vedeva la
fine, e io stavo li', fermo, col piede sinistro a mezz'aria sul primo
gradino in un'eterna indecisione. Mi svegliavo nel cuore della notte sudato
e ansimante, con una grande angoscia dentro; ero solo, in una terra
straniera, sotto un cielo che non mi apparteneva, per riaddormentarmi mi
cantavo una vecchia ninna nanna che mia madre mi sussurrava quand'ero
bambino e la pensavo cosi' intensamente che a volte non riuscivo a ricordarne
i tratti del viso, allora scoppiavo in un pianto improvviso e violento
che durava fino al mattino.
Ne ho salito di gradini di quella scalinata, e mentre li salivo non ho
mai alzato lo sguardo per vederne la fine, non mi son mai voltato
indietro per contare quanti ne avevo saliti, ma ho soltanto guardato, quello
che sarebbe venuto dopo, e l'altro ancora, uno alla volta, gradino per
gradino, passo dopo passo, anno dopo anno. Ce l'ho fatta, son diventato molto
di piu' di quello che volevo, molto di piu', ma mi e' sempre mancata
qualcosa in tutti questi anni, qualcosa che non ho mai capito; e' come se tutto
quello che ho realizzato l'abbia costruito intorno a un grande e profondo buco nero e per quanto mi fossi prodigato nel colmarlo non ci sia mai riuscito.
Ma adesso su questo treno che corre veloce verso i miei vent'anni
e' come se qualcuno abbia spalancato improvvisamente l'uscio socchiuso di una
porta dalla quale e' sempre passato un flebile filo di vento che improvvisamente, senza piu' ostacoli, entra dirompente con tutta la sua forza, investendo la mia mente di ricordi, il vento del passato E' stato come l'alitar sospiri su uno specchio immenso mentre la tua immagine sparisce e su quell'alone disegnarci con le dita un bellissimo affresco che t'impegna tutta una vita, e poi stanco chiudi un attimo gli
occhi per riposarti un po', e quando li riapri e' sparito tutto, vedi
soltanto il riflesso del viso di un ragazzo che non e' piu' il tuo, perche' nel
frattempo sei invecchiato rincorrendo qualcosa che non hai mai cercato
con il cuore ma soltanto con la mente.
E soltanto adesso mi rendo conto che in realta' non sono piu' cresciuto
dentro da quando son partito. Ho lasciato la mia anima, il mio cuore,
li' tra la mia gente, ad aspettarmi.
Piove adesso. Vedo le gocce d'acqua scivolare sui finestrini del
treno. Alcune scivolano via diritte verso il basso senza cambiare
direzione, veloci, altre compiono percorsi tortuosi, zigzagano continuamente poi si
fermano titubanti e alla fine come scosse da un sussulto improvviso
riprendono la loro strana traiettoria; altre ancore svaniscono subito
appiattendosi dopo una breve corsa nella trasparenza del vetro.
Domani arrivero', tornero' a casa. Verso il mattino mi affaccero' dal treno
e li' restero' finche' non si sara' fermato. Voglio ancora rivedere
l'azzurro placido del mare, i monti aspri e selvaggi che nelle sue acque si
specchiano, le casette bianche che si distendono pigramente sino ai
margini della spiaggia protese verso il blu stinto dell'orizzonte,
l'accendersi della pianura infuocata d'aranci e mandarini agli scintillìi del
dardeggiante sole di Sicilia. Voglio ancora vedere.
Una goccia d'acqua mi bagna il viso, ma il finestrino e' chiuso.
Forse non e' la pioggia.


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La notte di un vecchio

Si passeggiava per i campi quando si avvicinava sera. Era fresco, o meglio, anche questo ci sembrava una divina concessione della notte che ci rinfrescava dalle aride giornate passate sotto il sole. Ce n'andavamo in comitiva, si partiva da dove casualmente ci trovavamo. Gli altri amici ci raggiungevano per passaparola. Le sere di luna piena ci facevano scorgere la sterminata e irregolare pianura di fronte ai nostri occhi. Guardavamo la radura vestita della luce della luna come ipnotizzati, le figure, gli alberi e i confini erano estraniati nel buio. Ai nostri occhi le alte siepi che delimitavano il fiume dai campi, erano, in lontananza, delle muraglie uniche, ferme, fisse e regolari.
La nostra situazione era diversa dalle altre: noi non abitavamo in un paese, ma in case sparse. I Natali li passavamo insieme, tranne per i lutti che piombavano, malauguratamente, prima delle feste. Alle cene, alle volte, raggiungevamo le quaranta persone, altre volte sessanta. Le facevamo nella rimessa del Franti, la più grossa.
Io e gli altri maschi passeggiavamo in gruppo, le ragazze in coppia. I ragazzi portavano un maglione fino, le femmine, una giacca più spessa, ma anch'essa leggera. Mi tiro in disparte, mi allontano dal gruppo che rideva e mi avvicino a Maria. Era la figlia del fattore degli Andrei. Portava i capelli lunghi e scomposti, riccioli, neri che si spandevano in larghezza quando non li portava legati. Quest'enorme massa di capelli sovrastava, come una barchetta nell'oceano, su quel faccino pulito che sorrideva faticosamente, come se volesse nascondere le impervie della giornata. Insieme alla bocca sorrideva con gli occhi, due faretti verdi come l'erba medica che era data in pasto, sempre dalle sue mani, alle grasse mucche della stalla del babbo. Mani ruvide, con un anellino che largheggiava e che ad un tratto, con la luce della luna, brillava aggraziando quella mano.
Si camminava. Mentre parlavo di come stava mia sorella, lei mi guardava con quei suoi occhi, mentre un alito di vento le faceva tirare fino a metà naso la giacca.
Si sentiva nell'aria che l'estate era vicina. Fra tutti si parlava di mare, e che un giorno ci saremmo andati tutti insieme. Frattanto arrivammo al fiume. Luigi, il figlio adottivo di Luana e Pietro, aveva costruito, a pochi metri dall'acqua, un esile ponticello di legno, sul quale c'entravano quattro o cinque persone. Il fiume era l'unico posto che ci facesse sentire qualche strano rumore nella notte: intanto l'acqua scorreva e brulicava gorgogliando sotto il fasci di luce che filtravano a tratti dalle frasche. Tutti guardavamo ed ascoltavamo silenziosamente l'acqua, l'unica che non si assopiva sul fiume era Maria. Questa guardava me, questa volta a viso scoperto e sorrideva anche con la bocca.
-Perché mi guardi?- le dissi, -sono ingrassato vero? Si nota dalla faccia?-.
-No, ho solo voglia di farlo.
Distolsi lo sguardo da quegli occhi che improvvisamente mi ubriacarono.
Era particolare Maria, questa, appena preso il diploma, come per sfida nei riguardi di una situazione familiare insostenibile, aiutava volenterosamente la madre in casa e il padre nella stalla, ma solo nei lavori più leggeri. La conoscevo da molto tempo, siamo nati tutti a poche centinaia di metri l'uno dall'altro. Era come una sorella: da piccoli ci facevano il bagno insieme, ci portavano sul trattore, dietro, nella paglia. C'era un periodo che sua madre era sempre da noi, quando litigava animatamente con il marito; mia madre oltre ai buoni consigli, tirava fuori anche la cassetta del primo soccorso. Quando questo succedeva, ci dicevano di uscire, di andare a giocare.
-E chiama nonna, che è da Irma!- mi urlava mia mamma dalla finestra.
Io e Maria fuggivamo nell'aia, come se quei discorsi non ci toccassero minimamente. Una volta lei pianse, mi abbracciò e mi strinse. Era la prima volta che parlavamo di quello che stava succedendo. Era la prima volta che la vedevo piangere, chissà quante volte dietro ad un cespuglio o nella stalla l'aveva fatto? Ero a disagio con quelle braccia al collo, sentivo le lacrime che mi cadevano sulla pelle. Non avevo mai pianto, perché non ne avevo motivo. Ero a disagio, e volevo piangere con lei.
Intanto, su quel legno continuava a fissarmi ed io ero sempre più a disagio, quando mi disse:- sai che mia madre mi diceva sempre che io mi sarei sposata con te?-
Dopo aver detto queste parole si avvicinò, mise il braccio intorno al mio, appoggiò, chinando la testa, la guancia sulla mia spalla. -Ma le dicevo che sarebbe stata una follia-, mi sussurrò in un orecchio.
Restavo in silenzio a guardare l'acqua del fiume che scorreva e i rami che si muovevano irregolarmente facendo il solletico alla luna. Non la guardavo, ero impaurito.
L'avrei potuta anche baciare, davanti a tutti, ma poi? Volevo che tutto questo chiarore rimanesse fisso, immobile nella mia vita. Erano eterni quegli odori che mi si presentavano all'olfatto mischiati ai quei pensieri e a quel bacio non dato.
Nessuno di noi aveva la macchina; era sabato sera e nessuno sarebbe andato a lavorare il giorno seguente. Decidemmo, comunque, di arrivare in città, a piedi, passando per i campi del Marsili. Le coltivazioni di questo erano in malora: il Marsili era vecchio e il figlio lo aveva lasciato solo, con quella poca terra andata a male.
La città era lontana circa sette chilometri dalla nostra terra, la strada passava alla larga dal fiume, come se lo volesse evitare. A noi sarebbe bastato superare il ponte, che iniziava proprio alla fine della terra di Luigi Marsili. Il ponte era vecchio, abbandonato da anni: le tavole che fungevano da sostegno, erano tutte marce e spezzate. Dovevamo attraversarlo camminando sui bordi, che erano di ferro. Qui andavamo cauti tenendoci per mano, in fila indiana.
Io ero l'ultimo della fila e davanti a me c'era Maria che, impaurita e barcollante, mi teneva la mano, cosi al ragazzo davanti a lei. Con la spalla si appoggiava al parapetto, la luna riflesse la spalla scoperta, facendo scorgere il laccio del reggiseno, bloccato da un anellino bianco. La veste le si era impigliata ad un ferraccio sporgente. Lasciò la mano del ragazzo davanti, se la tirò dietro mollando anche la mia. Strattonò a se il mio corpo, prendendomi per i fianchi. Per non cadere nel centro del ponte e su quelle tavole messe a casaccio, mi ressi a lei, posando la mia mano sul suo fianco destro. Sentivo la banda del suo intimo sotto il vestito. Passava di li sotto quel pezzo di stoffa, sul fianco dove inizia a ingrossare.
Si fermò,-scusami tanto, che stupida.- Mi disse.
Rimanemmo indietro, guardando di sotto mentre gli altri ci chiamavano dall'altra parte.
-Andiamo va!- disse guardandomi sorridendo.
-si, andiamo.
Le luci della città arrivavano fino a noi, incoscienti di quello che stava succedendo.
Una voce squillante propose di fare una corsa di poche decine di metri: Maria cadde violentemente, si rialzo tutta polverosa e con un ginocchio sbucciato. I suoi capelli erano più confusi e gonfi ai lati di prima. C'era abituata al dolore, come tutti gli altri di qui.
il suo dolore non era solo questo.
Rideva dall'imbarazzo di quella sua goffa caduta e piangeva dall'improvviso dolore. -Mamma mia..!- urlava gemendo e, a tratti, ridendo.
Mi staccai dal gruppo che rideva e mi avvicinai a lei preoccupandomi di quella abrasione. Le dissi di farmi vedere: come se nulla fosse tirò su il vestito sopra le ginocchia, distese la gamba facendomi vedere il ginocchio. Era molto tempo che non vedevo le gambe scoperte di Maria; e nemmeno me le ricordavo cosi belle. Anche se la caduta non le procurò nulla di grave, io non me ne accorsi. Quella gamba ciondolava pulsando come un mare; con un'isoletta in mezzo di sangue nero, sporco e secco. Mi eccitai, iniziai a balbettare e ad aver paura. Non mi era mai successo prima: che nasconde una donna in testa? Che misteri chiude e protegge dentro di se che non vuol scoprire?
-Non ti sei fatta nulla-, le dissi voltandomi di scatto.
-Infatti mi è già passato, ma dovrò darmi una pulita- sussurrava, -resti con me?-
Non avrei voluto rispondere, ma poi dissi agli altri che li avremmo raggiunti dopo.
Tornammo indietro, proprio sulle sponde di quel nostro fiume, ma cambiammo posto. Ci sedemmo sul labbro dal quale la vista dei campi e dei poggi non era ostacolata dalle piante della riva opposta. Restammo in silenzio per qualche minuto, alzando la terra e scrivendo con uno stecco.
Forse per la caduta, o chissà per cos'altro, ricominciò a piangere, questa volta a dirotto, mi abbracciò e mi strinse bagnandomi il maglioncino nuovo.
.-Non lo sopporto più,-mi parve di capire dalle sue labbra premute sul mio braccio. Le chiesi di chi stesse parlando, lei mi rispose: -del mi' babbo-.
Infatti la picchiava. La malmenava per motivi ignobili, la percuoteva perché la madre aveva già fatto i fogli con l'avvocato. La mamma se ne sarebbe andata di casa, lontana da quel marito violento, ma senza Maria. " sai che mia madre mi diceva sempre che io mi sarei sposata con te?": queste parole mi balenarono alla mente, erano le parole di poche ore fa. Pensai a sua mamma: io visto come promesso sposo della figlia, non mi sentivo altro che la postilla di un contratto remoto, il ritocco di un progetto in conclusione. Perché sua mamma veniva a piangere dalla mia? Perché suo padre mi faceva paura da piccolo solo ad accorgermi del modo in cui mi guardava? Solo una volta, alla partita, mi disse:-stai attento!-, e rideva con quei gaglioffi dei suoi amici.
Questi nostri campi, questo nostro fiume, queste luci lontane che non ci capiscono non mi appartenevano più. Non ho mai vissuto certe cose, mia mamma mi voleva bene, mio babbo pure, anche se non stava più con noi. Ero la persona adatta a salvare Maria o a capirla solamente?
"Ti starò sempre accanto, perché penso di amarti": queste erano le parole che mi morirono sulla punta della lingua, ma le pensai solamente chiedendomi se fosse stata la verità o meno. Se gliele avessi dette? Avevo paura di una nuova sorpresa, e tacqui.
Nemmeno dopo le dissi niente, la salvai e basta. Il Marsili morì qualche anno dopo al partenza della mamma di Maria. Aprirono il testamento: c'era scritto che la casetta e la terra dovevano andare a Maria. In pratica ci lasciò tre stanze da mettere a posto e altra terra da zappare. Il figlio non ne seppe mai nulla della casa del padre, nemmeno noi sappiamo più niente di lui. Giravano voci che il Marsili fosse stato l'amante di Lea, cosi si chiamava la mamma di Maria. Svelate le verità del testamento il Marsili volle fare un regalo a Lea, visto che come amante le dette ben poco: salvare almeno la figlia.
Io e Maria ci baciammo poche volte senza nemmeno dirci niente, non ci sposammo mai e non facemmo nessun bambino. Alle volte andiamo al fiume, sempre soli, in silenzio, anche oggi che siamo diventati vecchi.


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Amore di un operaio.

Simone aveva venti anni.
Come tutte le sere se ne andava verso le sei, dall'uscita di sicurezza, per volenterosa e inspiegabile concessione del capo. Man mano che si allontanava con la sua gavetta in pugno e il viso stanco, gli rombava in testa quel rutilante frastuono di lamiere. Accompagnati da quell'odioso rumore, gli si accavallavano in testa i soliti pensieri: "Un altro giorno è andato domani la solita storiaora, a casa, solo".
Abitava solo, senza nessuno che lo aspettasse. Era fuggito dalla monotona campagna per trovare lavoro in città; lasciava la famiglia, una madre e la vecchia nonna, tutti contadini. Alle volte pensava alla sua vecchia casa, cosi piccola, madida di calore e odori familiari: il rumore della macchina da caffè, la vecchia macchinetta della nonna, appena usata, ancora fumante, gli destava un sorriso, mentre camminava, con quella lurida gavetta in mano. Alzò la testa, si tirò indietro alla meglio i capelli con le mani sudicie e sudate, reduci, povere mani, dalla catena di montaggio. Tirò avanti.
Entrò nel bar del "Penna", cosi chiamato per una monotona fissa del titolare per i film western. Era il bar dei più anziani, e lui ci stava bene a chiacchera con quelle masse di cellule stagionate, come le chiamava lui. Lasciò cadere violentemente il corpo su quella sedia rossa, fuori moda, di qualche anno fa. Ordinò il suo solito cicchetto amaro come il fiele e forte come il fuoco. Si guardava intorno, vedeva sempre le solite facce, i soliti tavolini circondati da stridenti urla d'anziani sdentati sotto scopa. Tavoli verdi, con il portacenere scavato ai lati, sui quali fumavano sigarette d'esportazione e al centro scivolavano ruvidamente i re, le regine e i fanti, ormai tutti vecchi e consumati, come il suo fegato.
Un ragazzo, di poco più piccolo di lui, passava saltando di gioia con la sua patente in mano, appena conquistata. Lo guardava sorridendo, mentre abbracciava i suoi amici che lo aspettavano. Il sorriso di Simone sparì subito dalle sue labbra. Si voltò e vide una faccia nuova in mezzo alle altre. Gli si avvicinava un signore, gentilmente questo gli chiese se si poteva sedere, forse per fargli un po' di compagnia, anche se Simone non ne aveva bisogno; era capacissimo di restarsene solo, con il suo cicchetto e basta. Guardando il suo scuro bicchiere e con un sorriso di compassione, Simone acconsentì ad accettare la compagnia dell'anziano signore. Il tale era un operaio in pensione: portava un berretto scozzese, di quelli che se hai la testa troppo piccola ti cala da una parte, come a lui ciondolava a sinistra, coprendo per tre quarti l'orecchio. Non era vestito come gli altri: aveva un vestito vecchio, ma di classe, grigio e fino; una cravatta legata male al colletto di una camicia bianca, con una punta del colletto dentro al maglione e un'altra fuori. I suoi occhi azzurri erano il centro di un groviglio di rughe che gli partivano dai bordi degli occhi, arrivando quasi come una gara, sin alle gote. Queste luci azzurre contrastavano sia con il resto del corpo, sia con lo squallore della bettola del "Penna". Il distinto signore si era rasato, forse la mattina stessa, ma considerata l'età ancora non si notavano i segni della ricrescita. Quella sua pelle liscia denotava una remota bellezza. Si mise a sedere, tirandosi un po' su i calzoni. Parlò per primo con voce accomodante chiedendogli un fiammifero per quel suo sfilacciato toscano.
Parlarono dello sciopero indetto la settimana prima, il signore chiese a Simone se aveva partecipato. Simone gli rispose che non era servito a niente, infatti troppi uomini erano entrati, danneggiando i compagni che erano fuori. Simone gli chiese perché gli interessasse tutto questo, del resto non doveva più, il signore, entrare in queste faccende. Il vecchio, sorridendo, gli disse che prima di fare l'operaio specializzato faceva il sindacalista. Voleva sapere se oggi c'era ancora motivo di porsi cosi in vista, davanti ai cancelli.
-Lei è giovane, avrà quanto venti anni o poco più?-, con rammarico disse il vecchio, -io mi chiamo Leo, piacere, lei?-.
-Simone, Simone Cecchi, piacere mio-.
Simone entrò in confidenza con il signor Leo. Ordinarono da bere, e finirono per ubriacarsi. Parlarono della rivoluzione d'ottobre, della Russia, dei suoi sbagli.
-L'amore?- disse il signor Leo, con quegli occhi azzurri quasi chiusi, sorridendo, -ce l'ha l'amore?-.
Simone ce l'aveva l'amore, un unico solo amore che aveva lasciato lontano, nella sua campagna, nel suo passato.
Uscirono dal bar si sedettero in una panchina del parco, inizio a raccontare la sua storia.
- La terra intorno era sconosciuta, tranne per chi la lavorava. Da piccolo pensavo che oltre quella staccionata avrei potuto trovare un mondo abitato non so da chi: mi proibivano di scavalcarla, di vedere. Sapevo di non essere il solo ragazzino ad abitare là. C'erano delle case, raggiungibili per dei sentieri in mezzo alla campagna, dove abitavano altri bambini. Li immaginavo, mentre giocavano in un prato, fatto apposta per loro, completamente verde, con delle transenne ai lati, forse ostacoli per l'ippica. Tutto questo me lo ero immaginato: sognavo un luogo dove potessi incontrare chi stava vicino a me. Ma sapevo di scoprirli tutti, pian piano.
Chiara viveva lì, tra il torrente e la fila d'alberi che delimitavano la stretta strada che tutti conoscevano. Mio padre aveva un cavallo e alle volte mi ci portava, per quelle campagne. Non ricordo se quel rigo d'acqua l'avevo visto in un sogno, oppure con mia madre, mentre faceva le more per la marmellata del sabato.
Aveva i capelli lisci, rossi a caschetto la mia Chiara. Tutti d'eguale lunghezza, con le punte che curvavano sin alla bocca: alle volte quando sorrideva le andavano fra le labbra; e due fossette le si scavavano all'estremità delle guance. Notai i suoi occhi, verdi, che si addicevano e contornavano una pelle liscia, tanto da pensare che tutta quella bellezza fosse dovuta alla campagna, alla terra. Portava dei pantaloni con le tasche laterali, quelli di moda. Una maglietta bianca, con le maniche strette che le premevano le braccia, facendogliele ingrossare, dandole quella forza che riusciva a compensare con quei sorrisi che la facevano arrossire e gettare lo sguardo a terra, imporporandone il volto. Si intravedeva il reggiseno bianco che sosteneva le sue grazie, non troppo esagerate, ma perfette.
Ero un ragazzo ancora: avevo diciassette anni e portavo i capelli fin alle spalle, dei pantalonacci grigi e delle scarpette di gomma, leggere. Usavo le magliette della casa del mare, quelle di quando ero piccolo. Alle volte stavo delle ore di fronte all'armadio a sceglierne una che non fosse o troppo stretta o troppo ridicola.
Incontrai Chiara nella folla estiva, un venerdì sera. Parlammo un po', ma solo dopo venni a sapere che viveva vicino a me. Ancora non avevo ben chiaro il posto, cercai di riassumere i sogni, la mia infanzia a cavallo e la raccolta in mezzo ai roghi con mia mamma, ma inutile. Pensavo a queste cose mentre ero lì con lei, e con altri giovani. Trovai difficoltà a parlarle subito, non sembrava così disposta. Parlava delle sue vacanze, delle sue passeggiate nei sentieri di montagna, e dei suoi piatti tipici preferiti. Io restavo in disparte, quando la chiamai e le dissi chi ero, dove abitavo. Mi venne spontaneo di dirle tutto quello, e pensai che lo capisse al volo, infatti mi sorrise: vedendo quelle sue fossette me la immaginai con le sue labbra vicino alle mie, ma sapevo che era vano sogno. Cominciammo a parlare, quando la distrassi e la posi in disparte dalle sue cronache, ci sedemmo sul gradino di una banca sulla strada, avevo una birra in mano, una di quelle grandi che costano poco. Rimanemmo molto tempo a parlare, seduti su quello scalino, per circa tre ore. La folla si era ritirata: chi a letto, chi sulla spiaggia intorno ad un fuoco. Rimasi solo con lei, ma ancora non riuscivo a capire chi avessi di fronte, chi in realtà fosse, dentro. Ero curioso, avevo fame di lei, di conoscerla. La tempestavo di domande, ma il dialogo avanzava su un tono democratico, colloquiale e sorridente. Senza doppi sensi o sorrisi beffardi. Era seduta alla mia sinistra, con il mento sulle ginocchia, ma con gli occhi rivolti verso di me. La testa sporgeva un po' in avanti e, con gli occhi di sbieco un po' guardava me, e un po', incrociandoli, si guardava il ciuffo rosso che cadeva a pendolo sul suo naso.
Ripensai all'infanzia: mi pentii di non aver mai saltato la rete, di non essere mai andato a trovarla; me la immaginai piccola, mentre giocava nel suo giardino, così ordinato, curato e isolato da quelle zolle. Suo padre non lo avevo mai visto. La mamma invece era la sua fotocopia: era una donna che in gioventù, a guardarla bene, doveva essere stata una di quelle ragazze che facevano girare gli uomini più anziani, una donna come tante, ma con un qualcosa che destava interesse anche per chi, certe cose, le aveva messe sullo scaffale da tempo. Pensai che Chiara dicesse tutto a sua madre, infatti quando le parlavo stavo attento, a non esagerare. Mi chiedevo se nelle nostre vite ci fosse stato un avvenimento da condividere, vista la vicinanza. Non la rividi più.
L'anno dopo l'incontro preparavo gli esami di Stato. Dalla finestra guardavo la campagna; era una sera di maggio. Le fronde erano immobili, i grilli gracchiavano e le zanzare viaggiavano a fitti stormi in controluce. Era fresco, ma sopportabile con le maniche corte, anche se in casa mi dicevano che era presto ancora. Mi ritornò alla mente, perché quell'odore mi destò i sapori dell'anno prima, quando la vidi.
Mia madre perse tutto, mio padre morì, dovetti lasciare la campagna dopo luglio signore mio. Venire in città e sacrificarmi alla catena di montaggio. Lei non la vidi più, si, la baciai una volta: chi se lo scorda quel bacio!
Poi, si sposò.
I lampi baluginavano ad intermittenza da una parte all'altra della coltre di nuvole nere. Queste vagavano indispettite verso sud, senza tregua; man mano che correvano il cielo si faceva sempre più cupo. I girasoli erano come piccole teste in processione che asserivano negativamente, con un gesto della testa, ad una domanda insolita, prima di qua poi di la con le sferzate violente di un vento di fine maggio. La domanda la farà il prete, più avanti.
Gli invitati, che aspettavano davanti alla piccola chiesa, come i girasoli, si sistemarono in ordine sotto le sacre tegole della sacrestia. Ma restavano a testa bassa, confabulando sul presunto ritardo degli sposi.
Lei non era più bella come qualche anno prima, i suoi occhi erano più tristi del solito, portava quel suo mazzolino a mani unite sotto il ventre, guardandolo. Aspettavo che una lacrima, da un momento all'altro, le cadesse dagli occhi, sui petali. Il velo, il vestito e la sottoveste la facevano sacra, pudica e casta. Era solo una formalità di fronte a tanta severità cristiana. Il trucco non era timbrato forte sul volto, se lo sarà passato una volta sola, senza contorni negli occhi, senza bordi neri nelle rosee labbra.
Lo sposo aveva riciclato il vestito del padre, quello della parata militare, quello della croce al valor di patria. Un abito fuori moda, rattoppato visibilmente ma dignitoso. Si era pettinato in modo antipatico, con i capelli indietro, usando della brillantina che nemmeno più mio nonno, prima della guerra, usava. Camminava gobbo con le mani dietro, masticandosi il labbro inferiore: era nervoso. Era nato li, nessuno lo avrebbe mai cacciato. Viveva bene, di rendita, ma senza ostentare questa sua ricchezza che non era né mai troppa, né mai troppo poca. Non si cimentava nei lavori che la campagna circostante richiedeva, ma lo sporco e il tanfo di stalla non lo preoccupavano.
Giorgio Palazzini era questo, un giovane che si preoccupava solo di guardare due sue zie vecchie, a pochi metri dalla sua abitazione, questa era posta su due piani, dove viveva solo con la madre. La domenica era solito imbattersi in lunghe trasferte con i suoi amici, sempre con la sua auto, perché degli altri al volante si fidava poco. Ogni fine settimana scopriva un paese diverso; e si lamentava del fatto che mai lui aveva trascorso un'infanzia di paese: vedeva ragazzi che si riunivano, fumando le prime sigarette, sulle scale assolate della chiesetta, carpiva gli occhi furtivi dei primi amori, si chiedeva se quella sua solitudine li avesse fatto male e si sposò con Chiara, la fece finita con gli amici e con tutti gli altri.
Era maggio, il sole era alto e illuminava a picco la piccola chiesa posta in mezzo al verde. Celebravano le nozze nella chiesa di S. Maria, a pochi passi dal mio paese. Pensai che era un dispetto, che mi volessero far assaporare il sapore del risotto crudo scagliato mollemente sulle vesti dei due, che la notte avrebbero visto bene di togliersi.-
Simone e il signor Leo rimasero fermi sulla panchina, senza nemmeno il coraggio di guardarsi. I fumi dell'alcool erano svaniti.
Simone andò a casa, cenò e si mise a letto per essere pronto l'indomani alla catena di montaggio. Anche il signor Leo tornò a casa, si tolse quel suo berretto, cenò, si riempì nuovamente il bicchiere, si infilò sotto le coperte. Pianse tutta la notte e il giorno seguente, senza trovare pace.


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