martedì 16 aprile 2024
Racconti d'Amore

LA FAVOLA DI MARISA

L’abito da sposa sistemato sul divano, le scarpe della cerimonia a portata di letto, la lista degli invitati riletta per l'ennesima volta. Ormai era davvero tutto pronto. Tra poche ore avrebbe realizzato il sogno di sempre.
Gli accessori utili erano tutti lì, pronti ad essere esibiti, indossati, insieme ad un padre al culmine della sua soddisfazione e a una madre emozionata ma visibilmente triste. Marisa si ritirò per l’ultima volta nella sua camera. Era alquanto presto per dormire, ma il giorno seguente avrebbe dovuto essere brillante. Si adagiò sul suo piccolo e affezionato letto, su cui spiccava ancora una foto del suo attore preferito. Continuava a mangiarsi le unghie, perché cambiare vita non significa perdere le proprie abitudini, belle o brutte che siano.
Raccolse il diario che aveva nel cassetto dei ricordi, e lo aggiornò: “12 dicembre: sto andando a letto. Ancora non mi sembra vero che domani mi sposerò. Sono emozionata, anche se non al punto che avrei creduto che fossi. Sono comunque felice. Devo essere felice. Buonanotte diario.”
Per chi sapeva leggere nelle frasi era chiara che quella felicità sembrava alquanto ostentata e a dispetto di qualche cosa. Ma il dato di fatto era il suo matrimonio, al quale ella doveva credere. Sentimenti quotidiani. Paure di grandi passi. Era una ragazza religiosa, Marisa. Romantica e sognatrice. Rimise il diario a posto. Guardava ipnotizzata oltre la finestra che si spalancava da sola. La Luna, che sembrava volesse attraversare il suo rettangolo, sembrava sussurrargli parole che ella stessa non voleva ascoltare. Era arrivato il gran giorno, la vita marcia su tutto. Gli tornarono alla mente i suoi tanti ricordi del passato. La sua infanzia, quella bambina sempre troppo particolare; la scuola, quel maestro decisamente bizzarro, ma bravo; le feste, quella voglia di scoprire regali sempre inaspettati; i nonni morti, quei giorni interi trascorsi ad ascoltare le loro storie romantiche e fantasiose; la sua amica, le tante litigate affettuose con Erminia; le sue storielle, quel ragazzo così inopportuno che pure era riuscito a farla soffrire. E poi lui. Certo, lui. Inevitabilmente lui. Era scontato che la pallina del passato si fermasse sul suo unico e grande amore. Aveva il sorriso sulle labbra, che addebitò volutamente ai ricordi precedentemente citati. Ma la pallina non voleva saperne di fermarsi.
Girava dove il cuore voleva. E infatti i riflettori si accesero in quella giornata memorabile.
La città quel pomeriggio, nonostante fosse troppo grande per lei, non riusciva ad alleviare la sua depressione. Seduta astrattamente su una panchina, leggeva un libro senza nemmeno accorgersene di farlo. Era piuttosto assente, con l'aria di chi sta lì ad attendere qualcuno sapendo che nessuno deve arrivare.
La città girava sotto i suoi occhi, che pure sapevano amare, ma che ormai non riuscivano più a farlo.
Ferma nel tempo e lontana dal mondo, Marisa faceva i conti con una realtà che era troppo diversa dalle favole a cui aveva sempre creduto. I principi azzurri e le fate altro non erano che le paure degli uomini camuffate da fantasmi, arte di arrangiare sulla propria pelle un costume altrimenti insopportabile. Era delusa. Mortificata dalle sue stesse speranze, come se credere fortemente in qualcosa fosse una colpa anziché una virtù.
Era ormai convinta che nulla di quanto gli offrisse il mondo potesse renderla diversa, nonostante avesse un età in cui tutto ancora poteva essere distrutto e ricostruito. Leggeva, ma le parole del libro le scriveva lei, con uno sguardo che attraversava la staccionata dell'orizzonte, andandosi a posare in un punto remoto dove risiedono le tristezze degli uomini.
Aveva ormai smesso di credere alle favole, anche se lo aveva fatto nel momento meno opportuno. La sua favola era lì, infatti, a due passi. Poteva vederla e toccarla con la mano. “E’ libero questo posto?”.
La voce di un giovane interruppe bruscamente, seppur nel suo modo pacato, i pensieri della ragazza che ormai diventavano sempre più lame taglienti. Alzò lo sguardo e in quel momento lo sguardo freddo e indifferente che aveva avuto cessò quasi del tutto di esistere. Una strana scossa avvertì la sua mente che qualcosa stava per cambiare. Un campanello d'allarme. O un segnale positivo. Un qualcosa di forte insomma. Non se ne accorse, ma le sue labbra si piegarono a un sorriso. “Sì, è libero. Si sieda pure.” Spostò la borsa che aveva accanto per fare posto al nuovo arrivato. Farfugliò nella sua mente contrapposizioni che chiedevano soltanto di essere smentite. Si sieda pure. Poi un grillo parlante iniziò a torturarla.
Ma che ho detto? Sfrontata. E’ un estraneo. E se fosse pericoloso? Devo andare via? E perché? Non poteva ancora definirsi crisi di panico, ma una certa irrequietezza si impossessò di Marisa, accentuata ancora di più dall’improvvisa richiesta dello sconosciuto. “Io mi chiamo Giovanni, piacere”.

Abbandonata sul letto, ripensava a quell’incontro e aveva il volto raddolcito da quelle sensazioni, come se stesse rivivendole nello stesso istante. La Luna si avvicinava sempre di più alla sua finestra, sembrava davvero sul punto di volergli suggerire qualcosa. Con lo sguardo la mise quasi a tacere, mentre la pallina non voleva saperne di fermarsi. L'abito da sposa, ansioso di poter essere indossato, poteva attendere ancora qualche ora.

“Piacere, Marisa”. E gli occhi esprimevano quella luce che credeva di non avere più. Un lampo o un alba ritrovata, questo non poteva dirlo, anche se poteva dire che se si fosse trattato di un lampo era il più abbagliante che avesse mai avuto. Qualche osservazione sul clima, qualche commento sul libro, qualche battuta detta al momento giusto e sorrisa nel modo giusto: la favola di Marisa iniziava e diventava grande.
Era ormai un ricordo remoto quel volto triste e appassito che giaceva poc’anzi su di un libro che pure cercava di sorreggerla. Parlava e scherzava con quel ragazzo come se lo conoscesse da sempre, ignara del fatto che appena un’ora prima non era a neppure conoscenza che esistesse anch'egli. Era persa e incantata in quei suoi sorrisi, in quei suoi modi di sdrammatizzare, in quella sicurezza che gli donava. Come se il mondo non fosse più qualcosa che funzionasse a tempo, a ore, era entrata in quel vortice di indefinitezza in cui solo l'amore può immergere. Ripresa, serena, improvvisamente molto più bella. I lineamenti corrucciati e duri avevano lasciato il posto a un volto che profumava di donna in tutta la sua essenza.
“Ma il tuo cuore per chi batte?”. Doveva, o poteva, apparire una semplice domanda. Niente di più falso. La pallina prese a correre in modo incontrollato. Da quell'istante non si fermò mai più.

Presa da un istinto che la luce della notte incoraggiava ad avere, Marisa raccolse dal baule dei suoi segreti una vecchia foto. Era Giovanni, abbracciato a lei, in un momento della sua vita che già era da ricordare.
Provava ancora quel grande amore per quel ragazzo, il matrimonio a due passi non gli aveva spento quelle emozioni. Niente si era assopito nel suo cuore, e questo era l’unico grande segno per cui fosse valsa la pena vivere fino a quel momento. Se non avesse pensato che l'uomo che si preparava a sposare fosse proprio Giovanni, probabilmente avrebbe mandato tutto a rotoli. Ma la sola idea che lo avrebbe ritrovato all'altare gli rinvigorì il cuore, ricaricandolo di un sangue che immetteva amore in ogni vena del suo corpo.

“Non batte per nessuno”, rispose a testa bassa, ma gli si leggeva in faccia che diceva una bugia. Fino a qualche ora fa era una verità assoluta, indiscutibile. Ma non in quel momento. Adesso si era rituffata in quelle emozioni, a cui in passato aveva dato un importanza spropositata per poi trovarsi a pentirsene. Impacciata o refrattaria, poteva combattere a tutto, tranne che a quello. Seppure inaspettatamente e improvvisamente, la sagoma dell’amore aveva già i lineamenti particolari di Giovanni. Una carezza improvvisa riscaldò un corpo che non voleva assolutamente altro, gli uomini in camicia e cravatta ridiventavano d’un tratto cavalli parlanti, la favola di Marisa si disegnava e si colorava di rosa. Non ebbe la forza di spostarsi, di spezzare uno di quei momenti che ti fanno davvero respirare la vita, di evitare quella mano che gli attraversava l’anima. Decise di affrontare ancora quel lungo viaggio nel calore di un emozione, anche se in modo così intenso non l'aveva mai provato. A quella mano se ne aggiunse un'altra, che andò però a cercare la mano della ragazza. La pallina dell’amore precipitava come una saetta, due strade fino a quell’istante opposte si trovavano d’incanto congiunte. Il Sole risvegliò i suoi raggi per rendere la favola ancora più memorabile.

Una parte del cielo si era già intrufolato nella camera della prossima sposa, e l’aveva sorpresa che stringeva quella fotografia come si stringono solo le cose importanti. Un tremore continuo, un fulmine di sensazioni.
Non è detto che un matrimonio affievolisca le passioni, anzi può risvegliarle. Chiusa per l'ultima volta nella sua camera, non sapeva se uscirne fuori fosse la scelta migliore. I raggi della notte abbagliarono quell'abito bianco. Una picconata. O un salvataggio. Immaginò che tra poche ore avrebbe riabbracciato Giovanni sull’altare, che avrebbero mantenuto quell'eterna promessa che si scambiavano. E si risentì meravigliosamente bene, come quel pomeriggio.

La sua mano strinse istintivamente quella del ragazzo che avanzava, non aveva mai provato nulla di simile fino a quel momento. La panchina era spettatrice privilegiata nonché protagonista assoluta di una storia di due persone nate soltanto per incontrarsi. “Hai le mani fredde…”
In effetti le mani erano l’unica parte del corpo che il calore delle emozioni non aveva riscaldato. Una smorfia, una richiesta d'amore. Il suo sguardo attraversava la linea di un orizzonte che si spianava di immenso davanti ad essa. Era il tutto che si estendeva nei suoi occhi, come se ad aprirlo bastassero i suoi occhi.
Si strinse nelle spalle, ma sorrise. Doveva essere una sorta di autodifesa per cercare di contenere i propri sentimenti che ormai devastavano la sua razionalità. Riuscì a contenerli, non a stopparli, quando il giovane gli si avvicinò all’orecchio, e accarezzandola le sussurrò parole cariche d’amore. “Sei bellissima, Marisa. Emozionata sei ancora più bella…”. Parole semplici nella loro essenza, ma quando a parlare è l'anima allora anche il cielo sembra si fermi ad ascoltare. Il resto della frase la completarono piccoli baci sulle zone più nascoste dai capelli. Marisa si girò, la resistenza era ormai un gioco che non le interessava più. Adesso contava solo aver ritrovato la propria capacità d'amare, quel riuscire a provare amore vero verso qualcuno, riscrivere quella favola che aveva lasciato a metà, interrotta bruscamente da una realtà che ora gli si ripresentava inaspettatamente diversa. La vita va vissuta fino in fondo, amava pensare quando era in sintonia con il mondo, per la sua grande capacità di stupire. Non ricordò quanti secoli trascorsero con le loro labbra unite, con le loro mani che si cercavano, ricordò solo che fu tutto irrealmente magnifico.

Abbandonò la fotografia, spense anche la luce che forse nemmeno era accesa, forse voleva spegnere la Luna, che era lì, a portata di mano, troppo piccola per poter assorbire tutte le sue emozioni ma troppo grande per poter entrare dalla sua finestra. Era solo un attimo di smarrimento. Una voglia di passato. Una ricerca di se stessa. E’ ovvio, pensò, che alla vigilia di un evento così importante ci si è un po’ nervosi e si pensa ai trascorsi più belli. Istintivamente si asciugò gli occhi, lo fece rapidamente per non avere il tempo di avvedersene. Sì, lo amava ancora tanto e non riusciva a capire tutte coloro che le dicevano che di fronte a un matrimonio tutto si affievolisce. Ma in lei tutto aumentava, era troppo grande l’amore che provava verso quell’uomo, nonostante gli impicci di un padre che non voleva assolutamente che la figlia sposasse un uomo così socialmente inutile. Altro che inutile, pensava lei, una favola non è mai inutile. Pochi l’avrebbero capita, soprattutto quella notte, ma lei credette di fregarsene…Travolta dalle cariche d'amore, ravvisò subito che stava andando a sbattere in un vicolo cieco, in una stanza murata. Si sarebbe sicuramente pentita di averlo fatto, così virò immediatamente la scia dei suoi pensieri e si rivide in chiesa abbracciata a lui, pronta a scrivere l’ennesimo capitolo di una favola ormai interminabile.

Dopo il bacio, i due si abbandonarono a profondi effusioni. Sorridevano, era impossibile che in così poco tempo fosse accaduto ciò che in una vita non gli era stato concesso. In quell'istante tutto davvero sembrava fermo, un unico quadro a far da sfondo a un amore che nasceva con tutta la sua prorompenza meraviglia.
"Ti stavo aspettando da una vita". E adesso l'aveva trovata. Anzi, si erano trovati. Tutto ciò che era trascorso non aveva importanza, adesso la vita poteva finalmente iniziare per entrambi. Presero al volo quel treno che proveniva dal nulla e diretto verso il nulla. Come una vera favola. La panchina diventò spiaggia, poi montagna, poi letto, poi prato, poi treno. Tanti Natali trascorsero in quel modo, tante estati abbracciati come il primo giorno. Inseparabili. Così li apostrofava la gente del paese, con un bagaglio di invidia che era addirittura condivisibile nel giudicare il grande amore che avvolgeva i due. “Nessuno al mondo potrà mai dividerci”. Giovanni pensava a un bambino col suo nome, Marisa immaginava già il suo abito da sposa.

Che adesso era lì, sul divano, pronto per essere indossato. Marisa si era intanto addormentata, tranquillizzata da un sogno che profumava d'amore. Aveva il sorriso sulle labbra, era facile immaginare in quale mondo si sarebbe catapultata in quella notte. La chiesa, lui sull'altare, l'abito bianco: era tutto perfetto e irreale, ma era ancora tutto da venire. Il passato regnava ancora padrone nella sua mente. Una stella cadente attraversò la sua camera, cadde ai piedi del letto, ma lei dormiva.
La favola di Marisa non era ancora finita.

La chiesa era già colma di persone eleganti. Ognuna di loro non lesinava a mostrare sorrisi che si abbinavano più con l'abito che con il loro reale stato d'animo. Lo sposo, emozionato, era lì, ad attendere la donna dei suoi desideri. Che apparve, bellissima, sotto il braccio di un padre che se era emozionato e teso non lo lasciava a vedere. Lei invece era un concentrato di sensazioni. Stava vivendo ciò che da piccola aveva sempre sognato, eppure qualcosa era diverso dai sogni che lei faceva.
Lui, ardente di lei, la accolse all'altare. Marisa sembrava un manichino telecomandato.
Dopo la rituale Messa di don Fernando, la domanda tanto attesa giunse come un meteorite sulla terra. Sapeva bene che doveva arrivare, si credeva addirittura preparata e tranquilla, non aveva mai immaginato che quella stessa domanda poteva provocare simili turbamenti in lei. "Vuoi tu prendere per sposa...?"
Il prete continuò la storia, il grillo riapparve sull'altare. Vuoi? Non vuoi? Come sarebbe? Sei pazza, Marisa! L'hai sempre sognato, ed ora? E' il tuo uomo, devi dire di sì! Cavolo, queste paure..perché?
E i tuoi sogni? E la tua favola? Hai sofferto tanto lo so, ma adesso...
Il suo amato la guardò alquanto perplessa, mentre la coscienza divorava i suoi pensieri più remoti.
Stava per fuggire in un oceano lontano, lontana dallo sguardo di un prete che attendeva la sua resa. Abbandonò l'oceano, insieme alla sua fuga d'amore. "Sì, lo voglio!"
Qualcuno tirò un grande sospiro di sollievo tra gli invitati, mentre lei fu scossa da un profondo fremito che sapeva anche da cosa e da chi le fosse provocato.
Anche Giovanni, nello stesso istante, avvertì un lungo fremito, seduto all'ultima panca di una chiesa affollata. Prima della fine del rito, si alzò e se ne andò. Con le mani in tasca e la testa altrove, si trovò a passare accanto a una panchina. La guardò. Si soffermò. Il vento soffiava forte, e le foglie ricoprivano quelle sbarre metalliche incantate. Viaggiò con la mente in un pomeriggio in cui era tutto diverso, in cui gli occhi del mondo sembravano tutti concentrati in quel posto. Avvertì una fitta. Si strinse nel cappotto. Sorrise.
Mentre da lontano un sordo rumore di campane graffiò con violenza su ciò che restava della favola di Marisa.


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LA FORZA DI PAOLA

Quattro anni fa incontrai per il Pavaglione una vecchia compagna di
facolta'; fu lei ad informarmi che la mia ex- , persa di vista da
almeno dieci anni, era ricoverata e stava molto male. Non le restava tanto,
forse appena qualche mese, forse meno.

Ci eravamo lasciati soprattutto perche' i suoi genitori avevano fatto
l'inferno per spingerci all' altare. Io non avevo reagito come avrebbero
sperato. Pur volendole bene, evidentemente, non ero ancora pronto.
In seguito lei aveva avuto una storia con un uomo sposato...insomma le
solite cose.
Pensai per tutto il pomeriggio e la notte. La mattina dopo telefonai
alla clinica. Ci lavorava un amico ortopedico. Dovetti insistere ma infine
parlo' di sarcoma osteogenico, una delle piu' insidiose forme
neoplastiche del grande universo dei tumori. Percentuale altissima di
osteoblasti, le cellule tumorali, e via cosi'; era iniziato con un
gonfiore al ginocchio e ora, dopo un inutile tentativo di amputazione, le
metastasi erano ovunque, anche nella cavita' toracica. Un macello, aveva
commentato.
Neppure la chemio era servita un granche' e il cobalto aveva solo
rallentato un processo che poi era ripreso con maggior vigore.
Alle 14 ero fuori della camera, con il cuore che galoppava, le
vertigini in testa e la paura di cio' che avrei trovato oltre quella porta di
laminato grigio.
Sua madre era accanto al letto. Riconoscendomi si irrigidi'. Vidi le
labbra stringersi fin quasi a scomparire. Mosse la testa in un muto
saluto. Riusci' perfino a sorridermi. Paola era pallidissima e cosi'
smagrita, come prosciugata dall' interno, che quasi non la riconobbi.
Le ossa tiravano la pelle e i lineamenti delicati che conoscevo tanto
bene erano induriti ed esageratamente marcati.
Dimostrava venti anni di piu'.
Stava rivolta verso la finestra, aperta sui platani del parco.
Quando si giro', lo sguardo fu come una martellata in fronte. Era il
solito dolce sguardo, intelligentissimo e vivo. Quello sguardo che
era stato mio, solo mio, ora lo era di nuovo. Intatto e vivo.
Incredibilmente,
nulla era cambiato in quegli occhi...oppure sapevano mentire quanto
non e' umanamente possibile mentire?
Strinse un po' la mano della madre, le fece un impercettibile segno e
fummo soli. Non sapevo che dire e avevo un tappo in gola.
Cosi' parlo' lei, prendendo fiato ad ogni parola. Fu lei a
sostenermi...
lei a rincuorarmi...
Rimasi li' ore, non so quante. Le diedi da mangiare, dopo che la madre
aveva fatto capolino alla porta per dire che allora lei andava.
La imboccai, attraverso labbra un tempo morbide e carnose, ora sottili
e secche come cartone. Parlo' soprattutto lei, con una serenita' e una
forza che mi sconvolsero. Ma dove la prende quella forza, DOVE?! mi
chiedevo.
Nei giorni successivi tornai ogni giorno, facendo finta di ignorare,
lei cosi' voleva, i tubetti che sempre di piu' la collegavano ad
apparecchi e sacchettini trasparenti.
Sapeva scherzare anche su quello, anche su quello. Li chiamava i suoi
compagni di viaggio, i suoi amici. Amici, si'...perche' erano sempre
con lei (!), giorno e notte e le impedivano di soffrire. Dunque, amici.
Parlammo per un tempo infinito e tanto fece che mi trasmise la sua
serenita', la sua indicibile forza.
Il tempo si dilato' per noi, aprendoci le porte di una dimensione
ignota ai piu'. Un mondo solo nostro nel quale potevamo dettare le condizioni.
Un mondo dal quale dolore e sofferenza erano banditi, come pure
lamentele e autocompatimento. Regole ferree che ci eravamo imposti, che MI aveva
imposto. Le sole regole che potevano rendere bellissime quelle ore, non
sapendo neppure quante sarebbero state.
Non eravamo mai stati tanti vicini, mai. Secoli di emozioni potevano
passare da lei a me o viceversa, con lo scoccare di uno sguardo.
Ad ore fisse eravamo interrotti dalle infermiere per le operazioni di
controllo. Cambio delle flebo, dei cateteri, ecc, ecc.
Lei accettava tutto con calma olimpica, non mostrando, a me che la
scrutavo non visto ( forse...), tentennamento alcuno.
Sorrideva.
La sera tornavo a casa dai miei. Mia moglie sapeva. E' una donna
intelligente e capiva, pur senza farmi domande. Capiva cio' che
provavo e proprio perche' intelligente, accettava e probabilmente soffriva nel
vedere me cosi' diverso, cosi' muto. Ma non diceva nulla.
La cosa ando' avanti per circa un mese. Un mese in cui sembro' che le
condizioni di Paola rimanessero stazionarie. Anzi mi parve perfino
riprendere forza.
Il tracollo venne improvviso.
Mancai dal lunedi' al mercoledi', per un viaggio di lavoro.
Quando la rividi' mi parve di morire ... e invece era lei che se ne
stava andando.
Semi-inerte per cio' che le riversavano in vena nel tentativo di
arginare il dolore, mi riconobbe appena.
Pochi istanti per stringermi il polso e sussurrarmi non ti
preoccupare, caro...
Non andai al funerale. Non m' interessava, no davvero.
Non sono mai stato alla sua tomba ne' mai lo faro', credo.
Lei la vedo e la sento. E' nei miei sogni. So per certo che sta bene
e questo, solo questo, m' importa. Non m' interessa vedere dove stanno
le sue ossa.
Mi importa che se ne sia andata da qui senza rabbia, senza paura. So
che e' stato cosi'. La calma che vedevo in lei non era solo ostentata.
Era vera, reale.

Quando succede (vedete, non dico se ma quando) di trovarsi accanto a
una persona che sta morendo e a questa persona volete bene, pensate che
in quei momenti la sofferenza maggiore per chi parte puo' essere la
scardinante consapevolezza della sofferenza che si lascia dietro.
Passata la soglia, ogni dolore termina ma continua per chi rimane.
Se sapremo mostrarci sereni, sufficientemente sereni, la sofferenza
sara' per tutti meno pesante.


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L'ombra

Su per le colline, lontano dalle case, oltre i limti del paese, fuori degli ultimi casolari dell'abitato, superate le cascine e gli orti, ai margini dei campi coltivati, fra i boschi ombreggianti recanti frescura, la gente sapeva che si aggirava un ombra d'amante, che non faceva paura, ma recava con sé passioni, ardori, pulsazioni. In mezzo agli alberi, vagando fra le fronde, spingendosi quasi fin ai margini dei luoghi popolati, addentrandosi nei menadri della foresta, fra incantati ruscelli, soleggiate radure, magici sentieri brillanti dei raggi solari che filtrano fra le foglie rade, viveva quest'uomo, la cui dimora, giusto in senso nominale, era una piccola capanna proprio al centro del complesso alberato, dal cui comignolo però non usciva mai fumo, la cui legnaia non si svuotava mai, nel cui orticello crescevano i fusti di piccoli alberelli. Egli viveva nel bosco, egli viveva il bosco stesso. Aggirandosi in affascinanti vesti adamitiche, faceva sfoggio privo d'ogni vanità della sua forma scultorea, dei suoi muscoli statuari, del suo volto dai lineamenti classici, del suo portamento policleteo; pareva di veder vagare, fa i cespugli e le felci del delicato sottobosco il David scolpito dal mastro Michelangelo Buonarroti in quel di Fiorenza. La sua dimora era per lui solo una comoda biblioteca. Nessuno sapeva dond'egli provenisse, dove fossero i suoi natali, di dove avesse ereditato la sua cultura di base, il leggere lo scrivere ed il far di conto, ma fatto sta che lui era li, e tali doti aveva. Tutto aveva imparato dai libri, che gli venivano portati dalle donne del paese assieme a tanti altri doni. Lui si concedeva senza remore, privo di pudore, serenamente bucolico ad esse, e loro lo ricambiavano in vettovaglie, vini, profumi, unguenti, ma soprattutto libri, che egli bramava, unica cosa del resto per cui egli provasse vero desiderio. Era diventato tante volte dottore, professore traendo scienza da quei libri. Era un grande matematico, un dotto filosofo, un eccelso grammatico, un geniale scenziato, un inventivo ingegnere, un avvolgente amante, tutto grazie al volume di sapere che egli stillava dalle pagine che gli si consegnavano. Egli, inconsciamente, si donava assai di più alle donne che gli recavano in dono i preziosi volumi, e sempre più spesso aveva ricevuto in dono le sue fonti del sapere. Egli andava a sedersi sulla cresta delle colline, sui cigli dei burroni, e si sprofondava nella lettura affascinante di quelle pagine ricche e trasudanti di sapere. Dai libri aveva imparato ad amare, fisicamente e spiritualmente. Dalle pagine degli orientali Kamasutra e Tantra aveva imparato a donare alle sue compagne un piacere profondo, viscerale, che sapeva andare oltre la sensazione fisica e sublimava nell'etere della spiritualità. Dagli scritti filosofici occidentali, soprattutto dalle pagine di Platone, aveva imparato l'amore etereo, impalpabile, sublime, elegante, irraggiungibile. Da molto tempo egli donava il proprio corpo alle avveneti del paese, donne con marito, fanciulle da sposare, vergini illibate, ma tutte assolutamente bellissime e giovani. Esse, da sole, riconoscevano quando non meritavano di andare a ricevere dall'Ombra della passione il piacere che fa urlare. Egli dava tutto se stesso fin dai primi periodi adolescenziali, quando ancora la barba non rendeva ruvido il suo volto. In principio le donne cercavano l'innocenza vigorosa, il giovenil ardore che le infiammava, poi, con gli anni, trovarono l'esperienza e la maturita di un corpo ed uno spirito ancor tuttavia molto giovani. Egli, da parte sua, riceveva le visite con piacere, si dedicava alle sue compagne con sincerità, trovava egli stesso giovamento dal provocare in esse tali piaceri carnali. Da esse veniva accudito, rasato, nutrito, spalmato di unguenti e cosparso di profumi, curato se si feriva, per non intaccare e mantenere immacolata quella figura statuaria che era per loro l'evasione più completa dal loro mondo. Quando erano con lui, anch'esse dovevano lasciare i loro indumenti ai margini del bosco, e con lui vagavano nude, si accoppiavano dove capitava, tornavano a correre e giocare, per poi unirsi di nuovo a lui, magari fra le fronde arrampicati su un albero o fra i mulinelli di un fresco torrente. Egli le allietava con dotti discorsi o tenere poesie, non sfoggiava la propria possenza fisica se non durante l'atto sessuale. Le donne gli passavano incantate le mani fra i fluenti capelli color della corteccia di noce, si perdevano negli occhi smeraldi color delle frasche dei rami degli alberi, accarezzavano quel volto soave e privo di curruzioni mondane. Finito il loro tempo nella foresta, si rivestivano e tornavano chine e a testa bassa in paese, alle loro mansioni, a scottarsi con le stufe roventi o ad accudire i bamnbini, pronte ad essere battute dai mariti se tardavano, i quali sapevano tutti benissimo che la loro moglie, quando loro non c'erano, andavano a trovar soddisfazione dall'Ombra dell'Amore. Più d'una volta s'era cercato di trovarlo, scovarlo, snidarlo, ma le battute feroci di rastrellamento non erano neppure riuscite a raggiungere la casetta al centro del bosco, perdendosi fra gli intrichi della vegetazione nodosa. Una mattinata serena, fra il cinguettio sereno degli uccelli e lo stridere delle cicale, s'avvicinò ai margini del bosco una graziosa fanciulla, non più grande d'una quindicina o forse sedici primavere, una lunga gonna e una camiciola, i capelli chiusi da un fazzoletto legato dietro la nuca, i piedini scalzi che correvano sull'erba, recando chiuse dento il grambiule alcune fasciate di erbe d'aroma e di medicina. Dagli alberi dentro il bosco, egli la vide. "Una graziosa fanciulla giovanissima viene in per di qua", pensò, "un'altra giovin pulzella illibata che cerca la sua verginità da perdere. Peccato rechi con sé solo aromi". Quand'ella, correndo rasente il confine degli alberi, vi si avvicinò un po' di più, si sentì chiamare:"O giovin donna! Lascia i tuoi indumenti ai tuoi piedi, e vieni pure all'ombra fra la verdura de' gli alberi". Ella, spaventata, scartò verso valle lungo la sua corsa, poi si fermò e cercò di guardare attraverso la penombra fra i rami. Egli si avvicinò di più al margine del bosco, ed ella lo vide, completamente privo d'ogni abbigliamento. Si spaventò, e portando le mani alla bocca lasciò cadere le erbe che recava nel grembiule. "E' un peccato che non mi porti alcun libro, ma vieni pure, le tue erbe sono ben accette e mi rendono felice. Accomodati fra le fresche fronde di questo bosco, e scegli pure l'ameno luogo ove io potrò recarti il tuo primo piacere". Ella, frastornata, rimase come incantata a guardarlo. I suoi occhi rimasero fissi a guardare, estasiati, la bellezza del viso, la profondità dello sguardo, e non scesero al di sotto. Poi, come svegliatasi da una catalessi, si scosse, e, raccogliendo da terra le sue erbe, corse via. L'ombra rimase molto confusa, non gli era mai accaduto nulla del genere. Si chiese chi fosse quella fanciulla, e perché mai era scappata, cosa mai lui poteva aver detto, o fatto, per portarla alla fuga. Quella dolce figura, quella piccola ragazzina gli rimase indelebile nella mente, come inserita in una dimensione soave, chiara e fresca nella sua innocente gioventù. In tutto quel giorno ricevette alcune visite dalle donne, ma, pur senza darlo a vedere, era assente da loro. La chioma rossa che ondeggiava su quel volto ansimante durante l'amplesso si trasformava nei capelli neri e lisci della bella fanciulla. Quei seni abbondanti e vogliosi di palpeggiamenti che si denudavano all'entrata della foresta apparivano i piccoli seni tondi e pudìchi su quel giovane petto. Il grembo lussurioso e orgasmico entro il quale lui faceva provar piacere alla sua compagna diveniva la piccola vergine virtù impenetrata della ragazza soave. Il giorno dopo, alla stessa ora, recando un grosso volume con sé, egli andò a sedersi nel luogo dove il giorno prima aveva fatto quell'incontro che lo aveva turbato. Immerso nella lettura, non si accorse che, dietro un cespuglio, la giovinetta era ritornata; lo guardava, lo esplorava con gli occhi. Non aveva mai visto un uomo nudo, prima d'allora. Come una giovane esploratrice, sondava quel corpo mai visto prima, osservava quelle parti che di nessuno aveva visto mai. Passò parecchio tempo, il sole si era alzato nel cielo fino al mezzodì, quando sentì un fruscio da valle. Ai piedi della collina stava salendo, di corsa ed ansimando, una giovane moglie del paese, con un cesto coperto da un panno sotto braccio. Arrivata al bordo del bosco, dov'egli leggeva, gli porse il cesto e cominciò a spogliarsi. All'ora di pranzo e di cena erano gli unici momenti in cui gradiva di più buon grado un cesto di vivande piuttosto che un trattato di logica aristotelica. Cavò il tappo dalla bottiglia, e bevve di quel buon vino di quelle terre. La donna, giovane e con le braccia e i muscoli di tutto il corpo robusti, di chi lavora nei campi, si spogliò mostrando un corpo arrossato e sudato. Lui lasciò in terra cesto e libro e, prendendola per mano, si fece condurre nel bosco. Ella lo fermò poco dopo, e lì si unirono. La ragazzina, da dietro il cespuglio, distingueva solo delle sagome abbracciate che ansimavano e spingevano con la parte del bacino l'una contro l'altra, appoggiate contro il tronco d'un ombroso castagno. Poco dopo la donna riuscì dai rami, si rivestì e corse di nuovo giù fino al sentiero, e poi verso il paese. Lui, imperlato di sudore che rendeva ancor più visibile il contrasto chiaroscurale sui suoi possenti muscoli, si sedette a gambe incrociate con a fianco il cestino, ed iniziò a mangiare. La ragazzina si accorse solo allora del tempo che era trascorso, e, timorosa delle punizioni che avrebbe subito, tornò di corsa giù sul sentiero, correndo poi dalla parte opposta da cui era venuta la donna. Egli la vide, e fece per chiamarla, ma lei corse via senza fermarsi, e non poteva più udirlo. Il giorno dopo, ella tornò, e lo rivide a leggere sull'erba. Presto, prima del giorno prima, arrivò un'altra donna, che si denudò e si addentrò con lui nel bosco. Andarono però più all'interno, e lei non poté più vederli. Lui, anche questa volta, accoppiandosi animalescamente con questa donna che aveva perso ogni senso di pudicizia, immaginava il giovane sederino, le gambe sode della ragazzina piegarsi sotto di lui, e, cieco verso la donna che stava montando, immaginava di sentir fremere sotto di lui il corpicino intoccato della fanciulla. Lei, accortasi che erano entrati assai fra le foglie e le felci, si avvicinò timorosa al luogo dove lui prima sedeva, e guardò il libro che leggeva. Ella era istruita, conosceva il latino, e riconobbe il titolo d'un dialogo socratico riportato da Platone. Quando sentì che i due coitanti tornavano, tornò a nascondersi dietro il suo cespuglio. Quando fu che la donna se n'era andata, ella tornò a guardare il suo uomo imponente e bello. Egli sapeva che ella stava celata da qualche parte, ad osservarlo, e ne era turbato. Era un turbameto che gli provocava una strana ansia, un batticuore forte, ed un senso di svuotatezza ch'ella riempiva: non riusciva a pensar ad altro che alla fanciulla. Fattasi un ora e metà dopo il mezzodì, egli non aveva ancora vista la fanciulla fuggir via, e pensò che potesse aver fame. Lasciò dunque le vettovaglie recategli in dono distese sul panno che copriva il cesto, e tornò nel bosco. La ragazza, spinta dalla fame che cominciava ad attananagliarle lo stomaco, s'avvicinò quatta e di soppiatto alle vivande, e, con grande circospezione, con il cuore che le batteva forte, allungò la mano per prendere la pagnotta bianca. Ma, nell'istante stesso in cui lei toccava il pane, una mano grossa le avvinghiò il polso senza forza, col delicatezza ma decisione. Da dietro il tronco d'un albero egli venne fuori, e fece scorrere le sue dita prendendole la mano lasciando il polso. Ella tremava tutta, ed allora, con voce pacata, serena e rassicurante, egli le disse:"Chi sei? Noi non ci conosciamo, ma tu hai fame e vieni a prendere il mio cibo. Prendi, mangia pure. S'anche per una mezza giornata non mi nutrirò, non ne risentirò, anzi, sarò felice d'aver lasciato il mio pane ad una dolce ragazza come te. Qual è il tuo nome, o bellissima fra le fanciulle?". Ella con uno strattone si divincolò dalla mano di lui, ma non scappò e rimase li, in piedi davanti a lui, con la pagnotta in mano. "Non importa", la tranquillizzò, "mangia pure". Ella non si mosse. Allora lui si sedette, appoggiato al tronco dell'albero, e la invitò a fare altrettanto. Timorosa e con ritrosia, ella s'inginocchiò , poi si sedette con le gambe distese. Senza proferir un verbo, e senza smettere di guardarlo, addentò la pagnotta e ne mangiò. Lui rimase a guardarla, estasiato dalla sua bellezza. Aveva un viso così candido, pulito, bello. Preso dalla sua fantastica magnificità, trasportato dall'immagine di lei, cadde assopito. Ella, finito di mangiare, rimase ad osservarlo sdraiato. Senza accorgersene, gli era strisciata vicino, ed ora il suo viso era sopra quello di lui. Il suo respiro era lento, la sua bocca aveva le rosee labbra serrate. Ella si fece più vicina, sempre più vicina. Poi, con le sue labbra sfiorò quelle di lui, infine ve le appoggiò. Chiuse gli occhi, e rimase così pochi secondi che per lei furono infiniti millenni. Poi lui si scosse, e lei scattò in piedi. Sollevò la gonna sopre le ginocchia, mostrando i bei piedini e le belle gambe snelle e dritte, e corse via velocemente. Lui si era accorto che lo aveva baciato, o forse no. Era strano, non si era mai sentito così insicuro. Il sole tramontò e risorse, e ventiquattro parti del giorno trascorsero da quando lei era arrivata ad acquattarsi fra i cespugli, che lo rifece di nuovo. Osservò lui inoltrarsi nel bosco con una giovine ragazza, di pochi anni nata prima di lei, li sentì gemere entrambi, e poi li vide sdraiarsi nudi lì davanti a lei, finché la giovane donna non si rivestì e se ne andò, lasciando due piccoli libriccini. Non appena quella si fu allontanata, la ragazza si alzò e si diresse verso di lui. Si sedette sulle ginocchia, pochi metri davanti a lui, e, sforzandosi di sorridere, disse "Il mio nome è Laura". Lui si alzò, e le venne vicino. A lei batteva fortissimo il cuore, aveva timore ed emozione, ma non si mosse. Lui le prese la mano, se la portò alla bocca e la baciò. "Sono felice di conoscerti Laura. E ancor più lieto rende il mio cuore l'udir la tua dolce favella". Ella lo guardò. Non riusciva a conciliare questi modi eleganti, sublimi, con i quali nessuno le si era mai rivolto, con quella stupenda nudità, con la quale alcuno si era mai presentato a lei. "Qual è il tuo nome, ragazzo?" fu la domanda che lei, dopo tanto fremere, riuscì alla fine a trovare il coraggio di pronunziare. Lui si sentì strano. Sentì come una fitta allo stomaco, come un burrone sotto il cuore, come una voragine che avesse inghiottito la sua mente. Nessuno gli aveva mai posto questa domanda, nessuna donna che aveva mai incontrato. Lui non aveva un nome, non ne aveva mai avuto bisogno. Ella lo vide sconvolto. Pur temendo, con la paura che le faceva saltare il cuore in gola, prese la sua mano, come lui aveva fatto con quella di lei, e gliela baciò sul dorso. Poi la baciò anche sul palmo, e sulle dita, e sulla punta d'ogni dito. A lui nessuna aveva mai dedicato tali carezze, sempre lui aveva fatto andare alla follia le donne con queste dolcezze. Egli si sdraiò, e la tirò a se. Ella si accovacciò accanto a lui, poggiandogli la testa sul petto. Rimasero lì a lungo, senza dirsi nulla guardandosi negli occhi. Lui le accarezzò i capelli color dell'ebano, che riflettevano al sole, e le accarezzò il volto, il bel nasino, la bocca dolce, gli occhi luccicanti. Poi lei si spinse in su, ed appoggiò le sue labbra di nuovo sulle sue. Questa volta sentì però le labbra di lui schiudersi, e sentì la lingua con cui egli accarezzava la sua. A questa nuova sensazione, ritrasse la testa, spaventata. Ma egli le prese la mano, come per rassicurarla, come per dirle "si fa così". Allora lei riappoggiò le sue labbra, e con la sua lingua accolse quella di lui. Poi tornò ad appoggiare la testa sui suoi muscoli pettorali, sviluppati e sodi. Con la punta delle dita, cominciò ad accarezzarlo. Lui, al primo tocco, provò un senso di accapponamneto alla pelle, un emozione strana. Innumerevoli volte era stato palpato in tutto il corpo da altrettante donne, ma quei timidi sfioramenti, quelle carezze innocenti ed esplorative lo emozionarono. Sfiorò i suoi muscoli, con la punta delle dita sentì ogni centimetro del suo corpo, e provocò in lui piaceri che trascendevano la fisicità, e che lui non aveva mai provato. Turbato e confuso, egli le discostò delicatamente la testa, e si alzò in piedi. Lei si alzò in ginocchio, e poi si alzò anch'ella. Lui non disse nulla, non si mosse. Poi lei si portò le mani dietro la schiena, e con un rapido gesto slacciò la gonna che con un fruscio cadde a terra. Si slacciò anche la camicia lunga, e la lasciò cadere in terra. Ora era nuda, davanti a lui. Quel piccolo corpicino, intoccato, invulnerato, impenetrato stava nudo ed esitante ai margini del bosco. Tremava, non sapeva perché si era tolta i vestiti. Non sapeva cosa fare, non aveva parole da pronunziare. Lui allungò una mano , lei la prese. Poi si diressero verso l'interno del bosco. La penombra era trafitta da allegri raggi di sole, e uno zefiro soave faceva frusciare armonicamente tutto quanto il verde. Camminavano a piedi nudi su un morbido manto di muschio. Alla fine, giunsero in un amena radura, un ruscelletto gorgogliante, il cinguettio dei passeri, un tappeto di fiori fra l'erba. Ella s'addentrò in punta di piedi fra i fiori, poi si girò a guardarlo. Con uno sguardo dolce lo chiamò a se. Quando le fu vicino, egli si sentì emozionato, una sensazione che mai neppure da vicino lo aveva mai sfiorato. Lei, parlando con un leggero soffio, sussurrando piano, gli disse di fare con lei quello che faceva con le altre donne che entravano nel bosco. Egli provò una grande paura, ma al contempo una gioia, una trepidazione, e un ardore e una ritrosia, si sentiva come se fosse alla prima esperienza d'amore, e neppure ricordava lui la sua prima, quando una bella donna lo aveva preso giovinetto e aveva fatto di lui il suo strumento di piacere. Lei lo abbracciò, come aveva visto fare dalle ombre che si addentravano e gemevano con lui, e lo baciò di nuovo. Egli allora la fece sdraiare, e poi si chinò su di lei. Furono travolti da una passione pura e pudìca, un piacere intenso ed avvolgente li percorse. Poi giacquero distesi affiancati, felici come non erano mai stati. Rimasero tutta la notte, e tutto il giorno seguente, in quella piccola radura. Egli, con dolcezza e provando per lei quella sensazione per lui nuova che lo riempiva, lo struggeva, lo sconvolgeva, l'addestrò a tutti i segreti del dare e ricevere piacere, le insegnò ogni piccola tecnica per procurarsi piacere toccandosi da sola, l'arte del coito e del masturbo divennero in lei specialità. Ella era piena di lui, sentiva nei suoi confronti una pienezza ed un'impossibilità a lasciarlo, ed aspettava con ansia ogni suo gesto, ogni suo sguardo. Durante le carezze, aspettava con bramosia il momento del piacere, e durante l'amore attendeva l'istante che seguiva il coito, quando si abbracciavano lieti e si guardavano negli occhi. Ella non voleva che lui smettesse di procurare il piacere che dava a lei alle altre donne, ma lui non sentiva più verso di loro l'istinto animalesco che prima lo spingeva. Provava ribrezzo al solo pensare ad una donna che non fosse la sua Laura. Ella gli diede un nome. Lo battezzò Silvio, in onore della foresta dove era la sua dimora. Ed ora , era diventata dimora anche per lei. Non tornò mai più da dove proveniva. E nessuna andò più a trovare il piacere, nei boschi fra le colline. Solo Laura poteva godere dei piaceri che quell'uomo poteva farle provare. Ed in più, solo lei, e lei per prima, poteva avere e dargli appieno anche quel sommo sentimento che li struggeva, quella sensazione di cui entrambi erano stati digiuni prima del loro incontro. Era finalmente fra loro due un vero, grande, immenso, universale Amore.


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Mon Chery

Corso Vittorio Emanuele è una bella via per un centro città: soleggiata, alberata con delle pittoresche querce secolari e ombrose che adornano i giardini dei controviali. Ai lati palazzoni signorili, portici lussuosi, boutiques chic, ristoranti annoverati sulle guide michelin, un negozio di forniture militari che forse stona un po', ma varia. E' orientata nord-sud: a nord sta Piazza XX Settembre, un bel parco, una chiesa barocca, ombreggiata, fresca, allegra, piena di simpatici piccioni; a sud si perde nel dedalo di viuzze del centro. Dalla parte a mezzogiorno, gira l'angolo col sole alle spalle una graziosa silhouette. Passo svelto e deciso, testa ritta, sguardo attento e luccicante. Alla curva una folta chioma di capelli neri sventaglia mossa anche dal vento, ricade leggera sulle spalle nude. Dall'estremo a settentrione, svolta una sagoma illuminata in pieno da davanti. Sguardo dritto, cipiglio fiero; testa ciondolante da un lato, mano fra i capelli folti; camminata rapida e ritmata. Lui procede sul lato che per la sua direzione sta a sinistra. Lei cammina svelta sotto i portici che le stanno a destra. Sul lato est del corso, non si incontrano, si passano a fianco senza fermarsi. Ma si notano. Lui riconosce in lei un atteggiamento già visto. Lei si perde ad osservare il suo sguardo penetrante. Ma passano oltre, procedono, si superano. La sera, lui svolta l'angolo sud, lei gira da Nord. Camminano sul lato ovest, la luce del tramonto imporporisce con riflessi ambrati e aranciati la parte est di corso Vittorio. Si rincrociano, si riguardano. Non si ignorano. "Scusi, mi saprebbe dire che ore sono?": lei al polso chiaro in contrasto sulla pelle abbronzata non porta l'orologio. Lui neppure. Dalla pochette del gilet tira fuori un orologio da tasca in argento. "Sono le sette e mezzo, Cherie". In francese; quanti anni sono che non sente chiamarsi "mia cara" nella lingua di sua mamma. Oh, a ricordarlo, quanto era stata presa in giro a scuola. Accidenti a quel discolaccio che le tirava sempre le treccine! Aveva sentito sua mamma chiamarla in quel modo, e da quel giorno non l'aveva più mollata. Oh, che tipo quello! Tutto dondolante sulla sua camminata, sempre le mani a massaggiarsi il cuoio capelluto come se stesse a scervellarsi per sfornare un'altra delle sue marachelle. Che bischero, lo definiva la maestra. Toh, guarda quell'uomo. La mano fra i capelli, la camminata il cui tempo sembra segnato da una banda. Ma... no, non è possibile! "Scusi..." accenna. "Peccato che tu ti sia sciolta le trecce, ma come stai bene così!" pronuncia lui; e il suo tono è così dolce. Lei spalanca gli occhi e si mette a ridere. "No, sei proprio tu!". "Beh, lo sdoppiamento della personalità è genetico nella mia famiglia, ma penso di non averlo ancora subìto, almeno per il momento" ribatte lui con un sorrisino ironico. Si mettono a ridere allegri. Si prendono per mano, due bambini in fila fuori dalla scuola, si dirigono verso il ristorante.

Due settimane dopo, corso Vittorio Emanuele è ancora lì, nessuno lo ha toccato. Poco più in su, le panchine di Piazza XX Settembre anche. Su una di esse sono accomodati proprio loro due. La sua bocca accarezza le gote profumate di lei. La sua mano accarezza i capelli di lui, fra le sue dita scorrono i boccoli color noce stagionato. Che bello. Che estasi. Un idillio ovidico, platonico. Sarebbe di certo la gioia della signorina Anna, maestra di italiano che li rimproverava perché non utilizzavano mai elisioni o accentuature: quanti apostrofi rosa, fra quante parole "ti amo". Anche Burns era d'accordo: pursebbene l'amore non viva con un bacio, un bacio vive con l'amore.

Un lampo, meno di un secondo, un tuono. L'acqua scende copiosa, li bagna, li inzuppa. Chiare, fresche e dolci acque, scendete, bagnateli. Essi, bagnati, asciutti, caldi, infreddoliti, sempre allegri, mai tristi, essi s'amano.

Laggiù, si prosegue dritti a sud per corso Vittorio, si gira a sinistra su via Papalini, fino in fondo, ci si immette su corso Giulio Cesare, sulla destra dopo cinquecento metri spunta come un fungo, estraneo fra gli indigeni, liberty fra i barocchi, l'edificio della nuova stazione. Luogo di partenze ed arrivi, incontri ed abbandoni, ciao ed addii. Che pena. Lo bacia ancora una volta. Una volta ancora. Una volta di più. Ha il biglietto in mano, lui sue le valigie a tracolla. Che voce gracchiante il microfono. Deve partire. Un bacio. Un bacio, di nuovo. Ancora una volta, la sua lingua accarezza la sua. Un abbraccio, lei lo stringe forte. "Oddio" sussurra. "Sei magnifico, tesoro mio" pronuncia scandendo. Un ultimo bacio. Si gira, cammina. Lui pure si gira. "Magnifico", anche se il suo nome fosse Lorenzo, non potrebbe suonare meglio per lui. Non se lo era mai sentito dire. Lo stile del Manzoni, il tratto del Botticelli, la pennellata di Matisse, la genialità di Einstein: essi erano stati tante volte magnificati. Lui era magnifico, da quell'istante, da prima, da mai, da sempre. Se ne andò, pensando. Venti metri dietro, binario tre. Una dolce coppia di vecchietti. Lei accento romano spiccato, lui esse biascicata torinese mal nascosta. Cinquantatre anni dal giorno del velo bianco. "E sei ancora magnifico", lei gli dice. E se ne vanno, abbracciati. Magnifici, entrambi.


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Serena

Era molto caldo, quel pomeriggio di primo agosto. La gente sudata tagliava camminando distrattamente la canicola dell'aria torrida delle vie. Nei dehòrs dei locali qualche membro della folla estiva che popola il paese si concedeva un meritato attimo di frescura. Davanti ad un elegante bar sotto i freschi portici del pittoresco centro storico, seduto ad un tavolo, stava accomodato un elegante signore dai gesti compassati. A prima vista non lo si avrebbe notato più dei tanti giovani neo-smart che si concedono le vacanze lontano dai centri di turismo. Ma a osservarlo solo un poco, si vedevano i particolari che facevano la differenza. L'eburnea camicia immacolata, pur indossata senza cravatta, non presentava una piega, ed i polsini, lontani dall'essere abbottonati col giro, erano raffinatamente appaiati e chiusi da due paia di stupendi gemelli che, a osservarli con attenzione, risultavano essere d'oro. La giacca, d'un nobile verdone, aveva un taglio su misura eccelso, molto fine, come i pantaloni dall'ormai tristemente superato risvolto che conferiva un tocco di classe cadendo su due scarpe di tomaia italiana dalla forma antica molto signorile. La persona non era certo tale da girare la testa quando gli si passa davanti, ma a soffermarsi giusto quel poco su di lui si subisce l'effetto d'uno strano fascino. I capelli tagliati alla militare non toglievano nulla all'aria aristocratica, anzi, denotavano una schiettezza d'animo che si rifletteva sul fisico; il volto duro, dai lineamenti marcati, attirava gli sguardi sugli occhi profondi, dallo sguardo intenso e raggelante, ma veloci e scattanti, attenti a scrutare ogni minimo dettaglio. L' atteggiarsi meditativo apparentemente distratto ed assente, gli intellettuali gesti signorili e superiori snobbavano involontariamente chiunque stava seduto ai tavoli vicini. Sorseggiando con una classe incredibilmente naturale il suo Vodka-Martini, si godeva, come molte altre persone, una leggera brezzolina che accarezzava i volti arrossati dei passanti e scorreva vivace fra i vicoli del borgo. Da una delle tante viuzze laterali apparve d'improvviso una ragazza, accompagnata sottobraccio da quello che pareva essere il suo fidanzato. Il giovane dai modi compassati ebbe un sussulto. Era molto graziosa, non bella. Un viso soave, una bellezza timida che appariva in tutta la sua freschezza quando su quel volto all'acqua e sapone appariva come d'incanto un magnifico sorriso. La pelle liscia, la fronte rilassata e gli occhi che brillavano, gli angoli della bocca costantemente piegati all'insù, pronti a diventare un sorriso appena potevano. Si notava come costei non frequentasse certamente il quartiere malfamato della tristezza nella grande città della vita. Era una ragazza Serena. Assieme al suo accompagnatore si accomodarono ad un tavolo accanto all' uomo aristocratico; lei non riuscì a notarlo. Lui invece la scrutò con una dolcezza che da anni non appariva più fra quei lineamenti scolpiti nel marmo. Conosceva bene quei profumati capelli neri, quel viso morbido e felice, quel corpo dai movimenti scattanti. Conosceva a meraviglia quella persona stupenda, quel carattere dolce e semplice, quell'amore per ogni piccola o grande cosa, per ogni evento della vita. Il suo cuore accelerò il proprio ritmo. Rimase ad ascoltarli. Lei chiese con allegria un chinotto alla fragola, il suo fidanzato si fece portare una birra. Parladogli, Lei gesticolava gaiamente, prendendogli di tanto in tanto in tanto le mani, il suo compagno discorrendo imprimeva un pesante accento dialettale al suo dialogo sgrammaticato, colorandolo di folcroristiche imprecazioni. Lei indossava una bianca camicetta di cotone leggero e un paio di pantaloni alla zuava, ai piedi scarpe da ginnastica. Al collo portava un vecchio fuolard di seta azzurro intenso, annodato all'altezza dei piccoli seni, dal quale non si separava mai. Lui lo riconobbe. Il fine gentiluomo dopo un poco si alzò, lasciando una banconota sotto il bicchiere, ed andò con il suo fare sciolto ed elegante a sedersi al tavolo della coppia. A Lei scappò un gridolino di stupore nel vederlo, e i bellissimi occhi le divennero lucidi mentre un sorriso, bello come non mai, di quelli come non ne sfoggiava più da tempo, adornò il suo volto. Presentandosi all'accompagnatore della ragazza come un prestigiatore, il gentiluomo invitò il dialettale a stendere le braccia in avanti, a palmi rivolti verso il basso. Incuriosito dai modi del neoarrivato, il fidanzato dai capelli tinti stese le braccia scoprendo sullo sviluppato bicipite sinistro, coperto dalla manica di una maglietta, arrotolata per alloggiare un pacchetto di sigarette, un licenzioso tatuaggio raffigurante una ninfa vestale concedentesi ad un muscoloso lupo grigio. A questo punto l'uomo compassato adagiò sui dorsi delle mani del fidanzato i due bicchieri che stavano sul tavolo. Poi, porgendo alla ragazza Serena il braccio, si allontanò con Lei lasciando al tavolo l'allibito dialettale. Se ne andarono insieme senza dire una parola, guardandosi di tanto in tanto negli occhi ma continuando a camminare. Giunti in una caratteristica piazzetta allietata dal gorgheggiare di una fontana e colorata da mille fiori alle finestre, lui la prese dolcemente per mano e facendole eseguire una piroetta se la portò davanti. Si guardarono per qualche istante fissi nei loro sguardi. Gli occhi di lei si ricolmarono di lacrime di gioia. I due non riuscivano a dirsi nulla, non riuscivano a fare nulla; non era necessario parlare, era superfluo agire. Rivoli di gioia scendevano dagli occhi di Lei, solcandole le candide gote, mentre continuava estasiata a guardare gli occhi di Lui. Poi, alla fine, si abbracciarono intensamente. In quell'immenso abbraccio stava dentro tutto quello che erano, l'amore, la gioia, e quello che erano in quell'istante, alfine di nuovo assieme.

Non si erano più visti da quel drammatico pomeriggio di fine Marzo, tre anni addietro. Si erano conosciuti due anni prima di quel pomeriggio di Marzo. Fra loro era scattata subita un' intesa perfetta. Nulla a che vedere con l'amore, nei primi periodi. Divennero autentici amici, come non se ne trovano davvero. Andavano a cena insieme, dormivano assieme, a notti alternate, a casa di ciascuno. E mai era stata sfiorata l'idea di un rapporto sensuale, sentimentale. Era come una splendida intesa fra fratello e sorella. Senza che lui se ne accorgesse, e senza che Lei lo volesse, lui era cambiato, ed era stata Lei l'inconscia fautrice di questa metamorfosi interna che lo aveva interessato: da cinico esistenzialista freddo e spietato, la cui vita era basata su un freddo calcolo di variabili, aveva imparato, proprio da quel calore amorevole che Lei gli trasmetteva, a comprendere anche la componente umana nelle sue equazioni cerebrali; insomma, lo aveva addolcito, ne aveva fatto una persona più umana, sensibile. Poi tutto era cresciuto, forse proprio a causa di questa rivoluzione soggettiva di entrambi, uno in parte di oggetto e l'altra in parte di causa efficiente, ed entrambi se ne erano accorti. L'amicizia aveva subito un complicato processo di trasformazione, ed era divenuta amore vero. Ma fra i due non era cambiato nulla, se non che erano sempre più inseparabili, ogni giorno, ogni ora, ogni minuto più vicini l'uno all'altra. Entrambi sapevano cosa l'altro provava. Nessuno dei due aveva mai provato, in tutta la propria vita, qualcosa di così grande per alcun'altra persona, e la sensazione, indescrivibile, sarebbe stata imperdonabilmente sminuita ad essere definita bellissima. Ma Lei, timorosa di poter perdere un rapporto di amicizia così intenso e vero, preferiva non affrontare l'argomento. Lui, conoscendo cosa Lei temesse, accettava la sua scelta, sebbene talvolta rammaricandosene, ma poi essendone lieto per non recare danno d'alcun genere a Lei. Poi, d'improvviso, in un freddo e gelido mattino uggioso di metà Marzo, lei ricevette la catastrofica notizia di dover partire. Il mondo intero crollò loro addosso, l'intero immenso universo collassò su quei due esseri umani al centro della rivoluzione cosmica. Piansero, insieme, per giorni e notti, abbracciati, trasmettendosi tutti se stessi attraverso la loro stretta inscindibile. All'addio lui tirò fuori dalla tasca un foulard di seta d'un azzurro intenso come il cielo che stava sopra di loro, e le asciugò le lacrime; glielo fece stringere fra le mani, dicendole che lo tenesse per non dimenticarlo. Lei avrebbe voluto gridargli, urlargli con tutta la voce che teneva chiusa in se da troppo tempo che non lo avrebbe mai potuto dimenticare, mai e poi mai; perché lo amava. Invece, quello che fece fu avvicinarsi alla sua bocca, e baciarlo. Non lo avevano mai fatto prima. Quando si separarono, non si girarono più a guardarsi, o non avrebbero retto alla disperazione. Mentre viaggiava, e venne vista triste, le fu offerto da bere qualcosa di dolce per tirarla su. Bevve un chinotto alla fragola che le fu servito; e da allora non avrebbe più bevuto altro, ovunque andasse. Lui, allontanatosi più che poteva da dove si erano lasciati, aveva vagato a vuoto, poi si era fermato in un qualsiasi bar, senza neppur sapere dove si trovava in quel momento, dove si era seduto, sconfortato e completamente svuotato, ridotto all'ombra dell'uomo che era stato. Al cameriere che chiedeva l'ordinazione buttò fuori dalla bocca un biascichio strano. Ne venne fuori un vodka-martini, agitato non mescolato. Aveva sempre odiato quel drink; da quel giorno ogni volta che si sarebbe trovato solo, non avrebbe bevuto altro. Quella notte, separati da troppo spazio, fosse stato anche dall'altra parte della parete, si urlarono all'unisono il loro amore. Purtroppo, non riuscirono a sentirsi.

Ed ora, erano di nuovo insieme, abbracciati come l'ultima volta. Lui le sfilò dal collo con un ampio gesto il foulard e le asciugò gli occhi. Questa volta fu lei a parlare. Non lo aveva dimenticato, gli disse. E questa volta, lui la baciò. Rimasero a baciarsi a lungo. Quel bacio doveva colmare tre anni; che erano stati tre secoli, tre millenni, eppure, in quel momento, come se fossero stati tre attimi. Poi si guardarono di nuovo negli occhi. Amore. Si riabbracciarono più forte che mai. Scatenatevi, tuoni e fulmini, mugghiate sui cieli tifoni e tempeste, alzatevi sui sette mari imponenti cavalloni, e voi pure, o déi immortali, scatenate la vostra ira dal sommo dell'Olimpo. Nulla mai, in Cielo oppure in Terra, potrà ormai separarli.

Le vicende narrate sono puramente fittizie. Ogni riferimento a fatti o persone reali è del tutto casuale.


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